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Sono del mio amato

Sono del mio amato

Ogni tanto mi capita di divagare e di lasciarmi guidare dagli eventi, più che da scelte calcolate. Ci può stare. Mi è capito questo libro e le info di massima andavano in rotta di collisione con qualcuna delle mie curiosità del momento.
Così ho iniziato a leggere.

Si tratta del secondo libro di Annick Emdin. Il nome suona molto straniero, ma poi curiosando e leggendo in rete scopri che si tratta di una giovane scrittrice italiana, in quel di Pisa, con la passione del teatro…

Il libro si lascia leggere molto bene, è scorrevole e soprattutto nella prima parte la scelta strutturale (o stilistica?) di alternare un episodio del presente con uno del recente passato è stimolante. Capitoli brevi ed episodi molto concreti, non si coglie quasi la fine dell’artificio nella parte finale, dove ormai la narrazione diventa unica.

La storia si svolge all’interno e all’intorno del gruppo ebreo ultraortodosso della comunità dei charedi. Ma la parte antica della narrazione riguarda un personaggio ebreo che vive durante il secondo conflitto mondiale. Si inizia con la storia di un matrimonio incompiuto, la fuga dal rastrellamento nazista, le peripezie di 3 fuggiaschi, l’accoglienza in una casa di contadine, poi nuova fuga e il confinamento in campi di concentramento. La guerra finisce e inizia il nuovo vagare alla ricerca di una destinazione. Il primo viaggio si conclude in terra di Palestina, con il sogno di una ricostruzione e l’approdo in un kibbutz.

La seconda è storia dei giorni nostri, una famiglia ultraortodossa, con i suoi riti e le sue strane consuetudini, che vengono tratteggiate (forse senza tante spiegazioni che a volte servirebbero per non confinare tutto nel regno dell’assurdo). Un giovane ragazzo rimane coinvolto in un attentato su un bus; una giovane soldatessa lo scaraventa in un luogo sicuro e lo salva. Una soldatessa ebrea ovviamente. Da qui parte la ricerca di questa salvatrice che finirà per cambiare la vita a questo giovane.

Vengono messi a confronto 2 mondi distanti anni luce, eppure presenti e vivi nella realtà ebraica di oggi. Sono di quest’anno le notizie di alcuni incidenti capitati durante festeggiamenti di ricorrenze speciali o al funerale di un rabbino particolarmente venerato. Tutti abbiamo visto le tribune traballare e poi collassare, oppure le folle incredibili (assembramenti assurdi) di persone senza mascherine e dal tipico vestito ebraico. Risulta difficile capire come queste due anime ebraiche possa convivere sotto lo stesso tetto, o almeno in quartieri adiacenti: Gerusalemme e Tel Aviv, il diavolo e l’acqua santa…

Naturalmente scatta il meccanismo dell’innamoramento, che trascina con sè tutta una serie di scelte di vita, radicali e forse un po’ affrettate. E in trasparenza si ripercorrono anche le vicende del nonno della famiglia, il vero perno della storia, come si capirà nel finale.

Trovo un po’ frettolosi alcuni passaggi e alcune decisioni dei protagonisti; cambiare una vita nel giro di pochi giorni dopo una esistenza scandita dai riti religiosi così particolari e dalle abitudini kosher mi sembra quasi un ridurre il peso di questa tradizione e questa fede a qualcosa di barattabile in tempi rapidi, in fin dei conti di poco valore. Qualche caduta di stile nel linguaggio, che richiederebbe una attenzione più mirata (un giovane charedi ci metterà del tempo ad usare un gergo giovanilistico da bar toscano, comprensibile per molti ma poco adatto al contesto). Infine mi sembra che l’autrice sorvoli troppo velocemente sulle tematiche religiose che sono alla radice della scelta dei vari gruppi ortodossi, che prosperano in Israele ma non solo. Avverto la mancanza di qualche approfondimento e di qualche riflessione più centrata sulla pregnanza dell’esperienza religiosa e sul messaggio biblico che non si limita a qualche citazione o terminologia ebraica. Anzi, spesso l’uso della lingua originale risulta un po’ d’inciampo nella lettura (e non tutti i termini/frasi sono tradotti).

Risulta invece abbastanza realistica la descrizione della vita di questa famiglia charedi, con le sue idiosincrasie e i suoi personaggi originali, dipinti con rapide pennellate, in modo vivace e realistico.

Immagino che l’autrice conosca dall’interno queste dinamiche e queste situazioni, il contrasto tra una modernità in rapida evoluzione e una tradizione antichissima che pretende di non aver nulla da spartire col mondo moderno. Una realtà ancora molto presente, oggi, in Israele. Basterebbe questo per stuzzicare la curiosità di chi desidera conoscere ed approfondire questo mondo.

E mi ricordo ancora di quello che mi era successo un giorno di tanti anni fa, proprio passeggiando nelle stradine della Gerusalemme ebraica, era sabato: ogni tanto uno slargo o un cortile, con frotte di ragazzine allegre a giocare (le donne non sono tenue al rispetto di tutte le norme dello shabbath), vedo un bambino, di pochi anni, coi suoi bei riccioli allungati e azzardo una fotografia. La sua mano inequivocabile scattò subito nel segno del divieto. Non è consentito fare una fotografia in giorno di sabato…

Un’amicizia tra sponde apparentemente lontane

Un’amicizia tra sponde apparentemente lontane

Martiri dell’amicizia, vengono definiti senza giri di parole. E questa definizione non rispecchia molto i canoni classici del martirio, dove la fede, la testimonianza della verità e la coerenza religiosa sono gli elementi dominanti.

Ma da tempo ci si è avviati lungo un percorso che ha saputo accogliere altri valori, squisitamente umani, che sono una testimonianza della Vita in maniera altrettanto luminosa.

Perché la fede sa rivestire con la sua presenza molti valori che le persone condividono.

La storia narrata in questo agile volumetto è molto semplice. Racconta alcuni passaggi della vita del vescovo cattolico Pierre Claverie, nato in Algeria, poi cresciuto e formatosi come domenicano in Francia e quindi ritornato in terra di Algeria, come vescovo di Orano.

Per lui è stata una riscoperta perché nei suoi primi anni giovanili la presenza dei musulmani era praticamente oscurata dal sistema sociale che la Francia e tutti i cittadini francesi vivevano senza particolare preoccupazione. Separati in casa, senza contatti e senza interazioni.

Ma nel suo nuovo impegno pastorale le cose cambiano decisamente. E per prima cosa cerca un autista, la scelta cade su Mohamed Bouchikhi, un giovane ragazzo musulmano.

Potrebbe essere una scelta azzardata e rischiosa, perché siamo agli inizi di quegli anni ’90 che vedono il rigurgito del fanatismo islamico, ad opera dei Fratelli Musulmani e le tensioni iniziano una rapida escalation di violenza che prenderanno una tragica piega con l’uccisione di fr. Henri Vergès e sr. Paul-Hélène Saint-Raymond, primi martiri di questa turbolenta fase della guerra civile algerina.

Il clima di tensione non ferma però l’attività di Pierre e, di conseguenza, i suoi viaggi insieme all’autista, che diventa interlocutore speciale e amico del vescovo.

Il libro ricorda alcuni episodi e alcuni eventi di questa amicizia, dello scambio di opinioni, del dialogo cordiale tra i due, sempre volto ad approfondire la reciproca fede senza mai imporre qualcosa all’altro.

La violenza pone fine alla vita di entrambi, con una bomba messa proprio nelle vicinanze della residenza del vescovo; entrambi restano uccisi dall’esplosione. E’ il 1996 e lo scontro ideologico segna un tragico bilancio: sono ormai 19 le vittime cristiane uccise per interrompere quel percorso di dialogo e di conoscenza tra il mondo cristiano e l’Islam.

Anche dagli appunti del giovane autista, semplici e brevi annotazioni, emerge traccia di questo cammino coerente e luminoso, che la violenza non potrà fermare.

Dal testo, scritto dal domenicano Candiard (vive al Cairo, docente presso l’Istituto Domenicano di Studi Orientali, dove si occupa di Islam) è stato tratto un musical, che in Francia ha avuto centinaia di repliche e ha riscosso una grande attenzione.

Completano il testo altri brani preziosi: una introduzione di Thimoty Radcliff, per lunghi anni superiore generale dei Domenicani e mente particolarmente aperta al dialogo; alcune note biografiche sul vescovo Pierre per comprenderne meglio la parabola storica e il contesto culturale; una riflessione dell’attuale vescovo di Orano che testimonia la continuità del percorso che la Chiesa continua ad offrire al popolo musulmano.

Testo interessante per comprendere l’importanza del dialogo e del contatto semplice e fraterno con le persone, unica chiave possibile per disinnescare la violenza e il fanatismo religioso.

Personalmente condivido la necessità di instaurare questo genere di contatti “dal basso”, senza pretese istituzionali o senza la presunzione di fare passi avanti semplicemente interpellando le “autorità”. Anche perché nel nostro territorio (mi riferisco a Siracusa), trovare delle autorità nel campo dell’Islam è davvero difficile, nemmeno le persone che si dichiarano musulmane sanno darti qualche indicazione. La moschea del quartiere sembra un magazzino di detersivi in attesa di apertura e i punti di contatto sono davvero labili. Sto maturando la convinzione che gran parte dei nostri ragazzi che si dichiarano musulmani hanno una conoscenza dell’Islam davvero ridotta e spesso superficiale; un terreno che può diventare facile preda di fanatismi e idee fuorvianti. Sarebbe quasi da chiedersi se non sia saggio “formare” meglio i musulmani del territorio, perché approfondiscano in modo più coerente la propria fede, per non accontentarsi di una infarinatura episodica, qualche rito da conservare, l’APP che suona regolarmente per ricordare le 5 preghiere quotidiane e poco più. Un islam più maturo e consapevole sarebbe sicuramente un compagno di viaggio più valido.

Ma chiedendo a tanti, dagli amici alla Curia, sul territorio di Siracusa si trova ben poco; qualcosa di più ci sarebbe a Catania, che non è proprio dietro l’angolo…

Ciao Mary (per sempre?)

Ciao Mary (per sempre?)

Confesso che dopo aver letto qualche riga sul libro, il nome dell’autrice mi ha un po’ lasciato perplesso. Ma per un semplice pregiudizio. Non conoscevo granché della Murgia, se non qualche sprazzo di presenze in TV, qualche suo commento, qualche flash sui vari media… una conoscenza molto superficiale e l’avevo taggata con un’etichetta tra l’influencer e la tuttologa mediatica.

Trovare un suo libro dedicato, almeno apparentemente, a Maria, la donna del vangelo, la madre di Gesù, mi sembrava per lo meno strano. E qui scatta la curiosità. Uno spulcia qualche pagina, legge qualche riga. E poi mi piacciono le posizioni un po’ alternative e sentire direttamente una voce femminile che riflettesse e parlasse di Maria, un tema più impegnativo di quanto si possa credere, mi intrigava particolarmente. E allora scatta la voglia di leggere.

Ho incontrato diverse sorprese piacevoli nel leggere il testo. Intanto la Murgia non è una persona semplicemente informata dei fatti. La sua prospettiva mi è sembrata molto chiara e ben dichiarata. Scrive da credente, con una lunga frequentazione ecclesiale, gli studi di Scienze Religiose, l’esperienza di catechista, insomma, scrive da “dentro” la prospettiva cattolica. Ma proprio per questo sembra invitare il lettore a recuperare uno sguardo critico più profondo, meno legato alla sola tradizione o alle consuetudini.

Lo confessa fin dall’inizio, non si tratta tanto di un libro “su” Maria o sul femminile nell’universo delle religioni, in particolare quella cattolica. Il titolo è quasi un pretesto per affrontare tanti argomenti legati agli stereotipi culturali e tradizionali che si sono sedimentati sulla figura e sul ruolo di Maria. Ci pensa il sottotitolo a ricordare il fine principale, che è quello di riflettere su come la Chiesa ha creato il suo modello di donna.

Ci sono alcune pagine chiaramente dedicate a sviscerare in modo organico la figura di Maria, ma il grosso del testo affronta tematiche più ampie; dal ruolo della donna, al maschilismo che si manifesta in tanti, troppi, aspetti della vita quotidiana, spesso criptati e tacitamente considerati come la “norma” necessaria da seguire, senza possibilità di un contenzioso.

Molti i fatti e le notizie analizzate, per rivelare come la nostra cultura ragiona più a colpi di stereotipi (patriarcali) che per chiara conoscenza e consapevolezza critica. Interessante l’analisi culturale di come viene proposta Maria nel corso dei secoli, quale evoluzione abbia subito anche semplicemente nell’iconografia cristiana, per capire come certe idee vengano veicolate più con il contorno che con il soggetto centrale.

Emblematica al proposito è la “scomparsa” del bambino nelle rappresentazioni mariane degli ultimi due secoli, via via sempre più evidente (da Lourdes a Fatima, per non parlare di Medjugorje). Non si tratta certo di un dettaglio, visto che nel Vangelo Maria è sempre in stretta relazione col figlio, anzi, quasi non esiste al di fuori di questa dialettica.

Anche il tono dell’autrice mi sembra moderato e dialogante, senza arrampicate su steccati dal sapore vetero-femminista e senza nemmeno lasciarsi andare a facili critiche di superficie.

Insomma, una lettura stimolante, per ascoltare, una volta tanto (mi riferisco alla platea dei maschietti, ovviamente) una riflessione al femminile su una tematica che quasi sempre ci viene spiegata e commentata a partire da modelli che da sempre hanno relegato la donna a ruoli subalterni.

Una soluzione decorosa…

Una soluzione decorosa…

Ho visitato in questi giorni il campo di Cassibile, il progetto di cui hanno parlato numerosi giornali e media, sia locali che nazionali.

Un luogo dignitoso dove ospitare i lavoratori (tutti migranti) impegnati nelle attività di raccolta dei prodotti agricoli della piana di Cassibile, una zona ad alta vocazione agricola, con un clima favorevole e una configurazione territoriale davvero felice. Ma con un grave problema di coesistenza tra i lavoratori e i cittadini locali.

Fino all’anno scorso la situazione dei lavoratori migranti era davvero qualcosa di indegno e di vergognoso. Quando iniziava la stagione della raccolta, su Cassibile convergevano centinaia di lavoratori, preda di caporali e di una gestione molto ambigua.

In pratica le persone restavano accampate sotto gli alberi, senza servizi igienici, senza acqua potabile… e questa situazione logicamente comportava per la popolazione residente una difficile convivenza con tale degrado.

Quest’anno il Comune di Siracusa è riuscito finalmente (lo scorso anno ci si è aggiunta la pandemia a complicare le cose) a sistemare un campo di accoglienza con prefabbricati offerti dalla Protezione Civile.

Tra l’altro questa soluzione ha visto anche la collaborazione del Comune dei Popoli, che si è interfacciato tra i l lavoratori (che devono essere tutti in regola con i documenti) e le istituzioni comunali, per la raccolta dei vari fascicoli e la parte burocratica, semplificando e snellendo le diverse procedure, perché la cosa importante di questa operazione è che tutti i lavoratori hanno un regolare contratto; è questo il modo corretto per combattere il caporalato e lo sfruttamento.

Tanti gli articoli della stampa che ne hanno parlato, sottolineando in vario modo i vari aspetti, da quello semplicemente logistico a quelli prettamente politici. Ma un semplice confronto con la situazione precedente sarebbe sufficiente a mostrare i passi avanti che si sono compiuti, segno che si possono gestire queste situazioni al di là delle chiacchiere e dei pregiudizi. Mettendo ad esempio in gioco la presenza di tante associazioni locali e di tanti volontari che sanno rimboccarsi le maniche per venire incontro alle situazioni di emergenza.

Domenica 16, nel pomeriggio, mi sono recato al campo insieme ad altri volontari della Croce Rossa, per aiutare nelle procedure per i tamponi anti-covid; Eravamo una decina e abbiamo rapidamente allestito il tendone e tutto il necessario per procedere con i tamponi. Il personale del campo aveva già informato da tempo i presenti (anzi, un primo gruppo aveva già fatto il tampone la settimana scorsa).

Il campo può ospitare fino a 80 persone (e al momento ci sono ancora posti liberi) e il primo impatto che si presenta al visitatore è molto positivo: pulizia, ordine, spazi ben organizzati. Il mediatore linguistico ha favorito la comunicazione e in poco tempo si è conclusa tutta l’operazione. Alla fine delle rilevazioni i tamponi eseguiti sono stati 25 e … tutti negativi.

A molti di noi veniva in mente di suggerire al personale medico di competenza che, invece di sottoporre queste persone a tamponi periodici, sarebbe ormai preferibile fare a tutti la vaccinazione, sensibilizzando anche i datori di lavoro nell’esigere un simile trattamento.

Calamosche, 1 tuffo nel blu

Calamosche, 1 tuffo nel blu

Primo weekend di sole vero, ormai quasi estate, dopo un aprile freddo e piovoso (cioé, 7 mm di pioggia non sono proprio un diluvio, ma di giorni belli ce ne sono stati pochi). E così decido che è ormai tempo di ripartire.

Tra i tanti posti interessanti e splendidi che ci sono nei dintorni di Siracusa mi ero concentrato su Calamosche, una delle spiagge più rappresentative del territorio. Avevo calcolato bene come arrivarci in bici, ma considerando le distanze, l’idea del treno mi sembrava la più conveniente. E treno sia!

Partenza sabato alle 14:10, con il trenino regionale che porta fino a Gela. Trenino è persino ridondante: 2 carrozze deliziosamente striminzite, per un pubblico di pochissimi interessati. Saremo sati in tutto 6 persone. Però il personale ferroviario era decisamente di prim’ordine, gentile ed efficiente. Avevo chiesto al bigliettaio della stazione (la stazione di Siracusa è per lo meno una succursale di Extrema Thule, l’ultimo capolinea delle FS!) se potevo salire con la bici. Mi aveva rassicurato che su tutti i treni regionali questo è possibile. Ma una volta salito sulla carrozza il problema era molto evidente. Dove sistemare la bici? Per fortuna era l’unica, e nel vano di apertura delle porte calzava a pennello. E poi la responsabile mi aveva confermato che sulle porte di destra non c’erano problemi, visto che tutte le altre fermate erano sulla sinistra.

Partiti con impeccabile precisione, in meno di mezz’ora sono arrivato ad Avola. Qui, fidandomi dell’istinto del ciclista faidate mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo del “la sa io la strada” e così ho iniziato a pedalare. Sbagliando ovviamente strada! Quando poi sono arrivato praticamente a Noto e mi sono reso conto di essermi avventurato troppo nell’interno… meno male che ho trovato la deviazione giusta. E quindi via verso il mare. Ma ben vengano gli sbagli se permettono di scoprire panorami e masserie abbandonate immerse nel giallo, colonne greche di età indefinita dedicate a non si sa bene chi. Ci sono angoli davvero spettacolari che meritano le pedalate in più.

Così giungo fino al Lido di Noto, che si sta animando per il primo vero finesettimana, nonostante la Sicilia sia ancora in zona arancione. Pedala e pedala recupero l’itinerario che avevo in mente (solo in mente) alla partenza e scopro così… di averla già percorsa, questa strada, tempo fa. Ecco infatti la deviazione per la villa del Tellaro (era lo scorso luglio 2020!). E nemmeno troppa strada dopo vedo finalmente la deviazione per Calamosche. Ci siamo.

Sapevo che mi aspettava almeno un altro paio di km prima di giungere al parcheggio. Strada bianca, polvere e sudore… ma poi l’arrivo. Solo che questo parcheggio finale sembrava moltiplicarsi in fretta. Deviazioni, bivii, B&B dai nomi accattivanti, isole della frutta. Insomma, l’ingresso ufficiale non sembrava particolarmente evidente. Anche se era proprio quello giusto e senza grandi spazi di parcheggio. Cancello chiuso ma porticina laterale semiaperta. Entriamo.

Speravo di poter entrare con la bici e proseguire per gli ultimi 1200 m. Ma il cartello mi sembrava abbastanza esplicito: nessun veicolo. E a conti fatti la bicicletta non è mica un sopramobile! Così la sistemo all’ingresso, vicino alla biglietteria (che chiude alle 14:30, come da locandina) e si inizia il tratto a piedi. Il sentiero da seguire è proprio quello che indica “arenile”, anche se a prima vista sembra portare altrove. Costeggia in pratica la recinzione e alla fine si rivela proprio come il più rapido. Si passa vicino ad una villetta (in vendita, caso mai vi venisse voglia di una località isolata ed esotica) e man mano che si avvicina al mare il concetto di macchia mediterranea si fa veramente evidente. Compreso il ginepro, che sono più allenato a vederlo in montagna,ma che qui dimora imperterrito e profumato.

Al primo panorama della spiaggia viene quasi voglia di affrettare il passo, ma ci pensa il sentiero, le pietre, la sabbia nella quale si affonda a ridurre la fretta. E finalmente si arriva all’ultima balza. C’è una scalinata che porta direttamente alla spiaggia e vederla così naturalmente deserta, quasi del tutto vuota, è già uno spettacolo. Nel breve tempo della mia permanenza ci saranno state 5-6 persone in tutto. Dai racconti e dalle foto che si trovano in rete sembra un miraggio. Graditissimo.

Ambiente in versione davvero “nature”, pulito, senza troppe evidenze umane (a parte qualche rifiuto, le immancabili bottiglie di plastica sulla battigia, qualche sacchetto ormai sommerso, per fortuna davvero pochi); la sabbia già calda, quasi da scottare, le alghe ammucchiate sulla risacca, il sole alto e intenso. Cosa vuoi di più per inaugurare la stagione estiva? E quindi ci si tuffa nell’acqua. Deliziosamente fresca e accogliente. Pochi momenti di relax davvero impagabili…

Il ritorno è all’insegna della scoperta ormai fatta e della meta ormai inserita nella serie dei “ci deve essere una prossima volta”. Questa volta recupero facilmente la strada per il Lido di Noto, affollato di gente e di primi bagnanti. Poi si pedala alla volta di Avola, sperando che la strada sia breve. Ma non lo è abbastanza per riuscire a prendere il treno delle 18:08. Quasi perso nella giungla di stradine di questa città a prima vista un po’ caotica, chiedo ad un ragazzo in motorino dove si trova questa benedetta stazione. “In pratica ci devo andare, vieni dietro a me”.

Bella consolazione, dopo tutti i km ormai percorsi mi devo sorbire lo strappo finale, ma forse ci voleva, visto che arrivo finalmente alla stazione giusto in tempo per l’ultimo treno utile, quello delle 18:28 (il successivo e ultimo è dopo 3 ore!). E fino a Fontane Bianche sono l’unico passeggere (direbbe il poeta di Recanati) di questo convoglio. Talmente coccolato che l’incaricata del treno mi stampa persino il biglietto (gratuito) per la bicicletta. Sarebbe da collezionare…

Rimangono i colori, la freschezza dell’acqua, la tranquillità impagabile del luogo (so che a luglio sarà una bolgia!). E non è poco.

Basterebbero queste poche immagini della spiaggia di Calamosche a ricordarlo.