Sfogliato da
Categoria: libri

Toccata e fuga in Marocco

Toccata e fuga in Marocco

Faccio ancora fatica a decrittare il nome di questa città: sulle mappe figura come Al Hoseima, ma le varianti locali sono variopinte e ognuno lo scrive come può, con la S o con la C (di derivazione francese), tanto vale scriverlo in arabo, الحسيمة‎…
Fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno che esistesse, perché da Melilla non è poi così facile fare una toccata e fuga nelle vicine zone del Marocco; il primo intoppo è costituito dalla frontiera, che rappresenta sempre un’incognita; bastano poche macchine in più nella coda e l’attesa può dilatare di ore.

Avevamo scelto un giorno infrasettimanale, il martedì, per iniziare il nostro rapido viaggio di due giorni, confidando nelle vacanze scolastiche di Melilla (per la Pasqua sono previste ben 2 settimane di vacanza, quasi come a Natale) e quindi meno attività, meno viaggi. Ci è andata davvero bene, perché il passaggio alla frontiera è stato rapido, appena un’ora di coda e di controlli. Così, sfiorando la città di Nador, ci siamo diretti verso Al Hoseima; sulla carta un viaggio semplice, meno di 150 km, ma la presenza di numerosi cantieri lungo il tratto iniziale (interessante vedere come il traffico non si ferma nemmeno a fianco delle escavatrici in azione, senza troppa attenzione per la sicurezza…) hanno allungato un po’ i tempi.

La strada seguiva passo passo la costa, molto frastagliata e spesso a saliscendi e vedere un tratto così lungo di strada senza case, servizi, pompe di benzina (nessuna in 100 km!) o altro mi sembrava davvero insolito. Quando poi siamo arrivati in una zona meno selvaggia e più pianeggiante, allora sono iniziati anche i normali assembramenti, le case, le zone coltivate (ma qui la siccità è piuttosto evidente). Finalmente siamo arrivati alla nostra meta, la città di Al Hoseima. Perché il nostro viaggio non era certo un’avventura alla cieca. Jesus, il responsabile della nostra comunità, aveva incontrato tempo fa il parroco di questa cittadina (se non sbaglio in tutta la diocesi di Tanger le parrocchie sono meno di 15, distribuite col contagocce, tutte molto distanti una dall’altra, dopo Nador, questa di Al Hoseima è la seconda parrocchia più vicina a Melilla!), l’invito era scattato quasi in automatico, perché in un contesto simile poter incontrare qualcuno con il quale condividere la lingua, le abitudini e le cose importanti non è certo un dettaglio da poco. La parrocchia in questione è gestita dai Padri Trinitari, una famiglia religiosa quasi millenaria; sono due i padri presenti nella comunità, ma in questi giorni uno di loro era impegnato a Rabat per il rinnovo dei documenti e siccome p. Emanuel era anche reduce da una piccola operazione, la visita rappresentava anche un gesto concreto di vicinanza.

Sempre più mi accorgo che in queste zone un po’ ai limiti del nostro piccolo mondo, si incontrano le esperienze più significative, quasi come pensare che ai margini della vita si incontrano gli estremi, spesso le cose più interessanti.
P. Emanuel ci ha mostrato la sua semplice realtà, l’edificio e la chiesa (prima di loro c’erano i francescani), le iniziative in corso, il laboratorio di cucito (ormai mi sembra un classico!) la piccola scuoletta di avviamento all’imprenditorialità… i segni di una presenza pacifica.
Dalla visita a questa piccola realtà trovo confermata questa ipotesi, perché davvero in un luogo come questo si apprezza e si comprende il senso di essere come un pizzico di lievito nella farina impastata. I numeri della parrocchia non hanno nulla a che vedere con le nostre esperienze occidentali (se solo penso alla realtà di una Giugliano con le sue tante parrocchie, o anche solo a Cesano Maderno che nonostante la ristrutturazione pastorale può ancora considerarsi divisa in almeno 7 parrocchie… qui i conti sono di tutt’altra dimensione).

Quando va bene e ci sono tutti, alla domenica la comunità parrocchiale sfiora le 20 persone! Oltre ai Trinitari si può contare sulla presenza dei Fratelli della Croce Bianca (niente a che vedere con le nostre ambulanze colorate, si tratta di una famiglia religiosa spagnola, ampiamente diffusa, qui in Marocco oltre a questa hanno un’altra sede a Tanger) che qui gestiscono un centro diurno per adulti con problemi psichici e di disabilità, ubicato proprio al lato della parrocchia; poi ci sono le suore della Divina Infantita che operano nell’ospedale cittadino: sono tre sorelle, la più “arzilla” delle quali ha 83 anni, uno si chiede cosa possano ancora fare tra le corsie, ma poi ti dicono che la struttura ospedaliera locale quando ha costruito la nuova sede ha realizzato addirittura una casa per questa comunità, e l’hanno posizionata proprio all’interno dell’ospedale, tanto le considerano preziose…, risulta evidente che l’apporto di questo piccolo drappello di donne deve essere davvero significativo!

P. Emanuel, che ci ha ospitato, spagnolo anche lui, riassume brevemente la realtà della quale è il “pastore”, insieme al suo confratello di nazionalità olandese (sono parroci “in solido”, con le stesse prerogative); gli facciamo notare che la chiesa di Nador non ha nemmeno la campana e che comunque non la potrebbero suonare, per la stretta legislazione marrocchina che non consente altre presenze religiose così evidenti. Qui invece le cose sono diverse, ci dice, alla domenica qualche rintocco di campana si può fare, prima della messa delle 11. Basti pensare che nella sede del centro diurno della Croce Bianca i muratori stanno realizzando un piccolo spazio per la preghiera dei musulmani, insomma, una piccola moschea dentro gli spazi della comunità cattolica!… Ovvio che nessuno si azzarda a chiedere di poter realizzare una cappella dentro una moschea locale, però si avverte che si vive in un contesto abbastanza tranquillo e tollerante. Ricordiamoci che siamo nel nord del Marocco e ci sono ancora presenze ideologiche legate alla ricerca di una autonomia locale (siamo nei territori del Rif, berberi da sempre), la lingua araba non è quella utilizzata da tutti, qui predomina ancora l’antica parlata tamazight, insomma, una realtà meno monolitica e identitaria rispetto ad altri luoghi.

Padre Emanuel ci fa un po’ da guida per le zone significative della città, gli scorci marini davvero suggestivi, le spiagge pittoresche, i nuovi quartieri abbarbicati sulle ripide colline (dove la macchina fatica persino ad inerpicarsi); accanto ad ogni nuovo insediamento, immancabile, una svettante mezquita. Mi dicono che l’impulso dato dal re, Mohammed VI è particolarmente vivace in questo senso, si nota una espansione molto orientata ad una presenza musulmana evidente e totalizzante; la città ha una evidente vocazione turistica, tutti i nuovi quartieri sono sorti per questo motivo, d’estate la popolazione si triplica per l’arrivo di tante famiglie che si sono trasferite in Europa e tornano per le vacanze, ma anche per i numerosi turisti europei che sfruttano queste zone ancora un po’ selvagge e pionieristiche. Peccato solo per la fretta costruttiva e per il totale disinteresse all’ambiente; sporcizia e spazzatura in grande quantità, scenari deturpati da rifiuti abbandonati quasi ovunque. Per uno sguardo occidentale senza tanta memoria sembra un’offesa al buon senso, ma se ripenso a certi paesaggi italiani di solo 20 o 30 anni fa, rivedo alcune costanti. Forse è solo questione di tempo e di adeguamento ai nuovi canoni; ci vuole pazienza per raggiungere un equilibrio più decente.

Ci siamo anche avventurati nel mercato locale, il souk marocchino, in questi giorni di Ramadan sicuramente iaffollato n tono minore. Ma sfilare tra bancarelle sovraccariche di mercanzie, gabbie di galline stipate, galli allacciati con un cordino e liberi di scagazzare serenamente, ripiani in marmo ricolmi di pesce, probabilmente appena pescato, verdure e spezie in abbondanza, il tutto condito da richiami e vociare ovviamente per noi incomprensibili… ha il suo fascino, forse un po’ assordante ed esagerato, ma molto suggestivo.

L’ultimo momento condiviso insieme lo viviamo a tavola, ne approfitto per un revival patriottico e preparo due spaghetti al volo, vedo che P. Emanuel, che ha vissuto alcuni anni a Roma, apprezza volentieri questa proposta. Siamo praticamente in 3 a tavola, visto che Jesus in questi casi non è tanto una buona forchetta.
Azzardo un cauto: “butto giù 200/ facciamo 250 grammi di pasta?”
“Stiamo scherzando? – replica Emanuel – Il pacchetto è da mezzo chilo, poi quando mi ricapita un’occasione come questa? Mettilo tutto intero!” E in effetti basta poco, un semplice sugo all’aglio e un pomodoro fresco per risvegliare le narici. Nel frigo c’è anche una busta di formaggio grattugiato. Cosa vuoi di più dalla vita… E il mezzo chilo di pasta finisce rapidamente, tra una chiacchierata ed un ricordo.
Diamo il ben servito anche ad una bottiglia di vino marocchino. E’ vero, nell’Islam non si usa, ma per il “mercato” si fa questo e altro. Ed è un vino niente male, corposo e saporito. Addirittura Emanule ci conferma che ci sono ben 2 negozi che vendono bevande e liquori.

Ormai siamo quasi in partenza; nella stanza avevo adocchiato alcuni libri interessanti, in particolare quelli sul tema del confronto tra cristianesimo e islam, un tema che qui ha il sapore del quotidiano, non certo del semplice approfondimento telogico, Chiedo allora qualche consiglio al nostro esperto. Poi mi sarei messo alla ricerca, possibilmente online, di alcuni di questi titoli. Che sorpresa quando, giorni dopo, mi sono accorto del valore di uno di questi libri in bella evidenza: si tratta del libro El Islam, di Montserrat Abumalham , non esiste in versione digitale e l’unica copia cartacea viene venduta a oltre… 700 €!
Devo avvisare Emanuele di conservarla bene, potrebbe servire come preziosa merce di scambio!
Decisamente le cose migliori avvengono a bordo tavola. Mentre riprendiamo in macchina la via del ritorno, penso di aver raccolto molto materiale su cui riflettere per i prossimi giorni.

E naturalmente, qualche scatto ci scappa sempre, ecco l’album di questo viaggio ad Al Hoseima

Valle a capire le regole dello shangai

Valle a capire le regole dello shangai

Di solito i libri si leggono, ma non mancano le alternative, solo che le abitudini pesano e ci si abitua facilmente. Si possono anche ascoltare, i libri, o farli leggere da un pc, visto che ormai sono quasi tutti digitalizzati. Nel mio “vecchio” I Care bbs (roba del secolo scorso) avevo iniziato a raccogliere libri in formato testo (il semplicissimo *.txt) proprio per questo, sapendo che ipovedenti e ciechi potevano in questo modo bypassare la difficoltà di recuperare testi in braille. Esisteva già, da tempo, una biblioteca di questi testi curata dall’UIC (ed esiste ancora oggi), ma di ascoltarne uno per intero non mi era mai venuta la voglia. Al massimo mi sono segnato il primo testo letto interamente al PC, nel lontano 1985, credo, si trattava di … Pippi Calzelunghe e nel leggerlo mi tornava in mente ancora la musica della colonna sonora del primo filmato trasmesso dalla Rai di pochi anni prima…

Come dire, anche tutta la nostra infanzia ormai si può ripercorrere facilmente a colpi di mouse.

Ma a metà dicembre, nonostante la saga delle vaccinazioni (in offerta speciale avevo fatto quella del Covid e anche dell’influenza) mi sono dovuto arrendere ad un forte raffreddore. Quindi un po’ di tempo a letto, senza nessuna voglia di sfogliare un libro nemmeno sul tablet. Così ho provato: “Alexa, leggimi un libro”, pensando di rinunciare dopo pochi minuti, e invece…. sono riuscito ad arrivare fino alla fine.

Certo, cambia molto il rapporto col testo, se ti sfugge qualcosa devi inesorabilmente procedere e tentare qualche inferenza, se smetti non sai mai di preciso se il testo ricomincia dal punto esatto dell’ultima narrazione, non riesci ad avere un’idea di quanto manca veramente (anche se ad ogni ripresa dopo una pausa significativa la voce ti conferma che “mancano 2 ore per terminare il libro”) e neppure di quanto è già stato letto (non vedi o non senti nessuna percentuale di avanzamento); insomma, le differenze sono notevoli.

Però la storia rimane, il testo procede.

Per una sorta di consuetudine maniacale avevo preso l’ultimo romanzo di Erri de Luca, Le regole dello Shangai, e non immaginavo davvero di cosa potesse trattare il testo, abituato al vasto divagare dell’autore, dalle traduzioni dall’ebraico alla cultura napoletana, dai ricordi di formazione all’impegno solidale. La storia invece era davvero curiosa.

Il protagonista maschile del racconto è un personaggio che scopriamo vivere in alcuni momenti in una tenda, in una imprecisata zona di montagna vicina però al confine (forse croato, sloveno o austriaco), ricorda sicuramente il De Luca appassionato di montagna e scalate, vita rude a contatto con la natura; si vede improvvisamente sconvolgere l’esistenza dall’ingresso di una giovane ragazza di etnia gitana, in fuga da un matrimonio non desiderato, che vaga per la montagna, in cerca di sicurezza e di un futuro migliore, un possibile migrante come tanti di quelli che seguono la rotta balcanica. Il nostro accoglie la ragazza e la protegge da altri oscuri personaggi che vagano per la montagna (trafficanti? militari?).

Inizia una strana amicizia, o almeno un sodalizio tra i due che si prolunga, si trasforma in fuga, in ricerca di una sistemazione definitiva per questa ragazza, che troverà finalmente una dimensione e una sicurezza adeguata. Ma la storia continua e si complica: il nostro protagonista non è semplicemente un montanaro appassionato, è parte attiva di una rete di reclutatori di … spie (un Erri De Luca che sfocia nel giallo non lo avevo ancora letto), con le sue regole ferree e le sue complesse dinamiche. Ma in questo caso tenta un’eccezione, sistemare questa ragazza senza strumentalizzarla o sfruttarla come possibile informatrice. Questo è almeno quello che crede o spera.

Perché invece la realtà sarà ben diversa, la ragazza stessa scopre le trame di questo gioco sofisticato ed entra, quasi come per una sorta di restituzione dell’aiuto ricevuto, a far parte di questo ingranaggio occulto. Nel testo prende corpo la comunicazione tra questa ragazza, ormai diventata donna e adulta e il suo vecchio salvatore, che continua a passare, periodicamente, settimane in tenda, nascosto sulle montagne. Le lettere che le due persone riescono così a scambiarsi chiarisce questa complessa trama di vicende. Nel finale stesso la montagna, dura e spesso ostile, come la natura del bosco, non sempre ospitale, si riprendono la scena.

Questo è almeno quello che sono riuscito a recuperare, a mente, della trama del testo. Affiorano tra le righe i temi cari all’Autore: l’impegno solidale, la sensibilità per le classi umane più vilipese e sottomesse, gli avvenimenti storici segnati dalla parabola socialista, il recupero di parole precise e nitide…

Insolito e davvero interessante…

Le armi i cavalieri e le cattedrali

Le armi i cavalieri e le cattedrali

Per togliermi lo sfizio di soppesare con le mani questo mattone dovrò cercarmi una libreria. Meno male che adesso sono a Melilla, fossi ancora a Giugliano, dove le librerie sono negozi praticamente sconosciuti, non saprei come fare.

Le indicazioni vanno dalle 1300 alle 1056 pagine, davvero un volume impegnativo. E tutto perché a maggio, durante la visita della vecchia cattedrale di Vittoria-Gasteiz, in territorio basco, mi ero imbattuto nella statua di Ken Follet che proprio dalla struttura della cattedrale antica, tuttora in corso di restauro, aveva preso spunti e ispirazione per il suo libro. A parte la diatriba con U. Eco sulla “qualità” delle rispettive opere, penso che i livelli da considerare siano diversi, anche se Il nome della Rosa ha contribuito notevolmente ad una ripresa di quella passione medioevale che forse alberga in tutti coloro che hanno masticato un po’ di storia europea. A fasciare i contorni della cattedrale di Vittoria c’era uno striscione tra il provocatorio e il suggestivo “Aperto per restauro“, e la visita iniziava quasi come un tour dentro una fabbrica, con tanto di vestizione del cavaliere che in questo caso prevedeva, in alcuni passaggi, anche il casco di sicurezza. In effetti il percorso si articolava proprio nel cantiere, tra ponteggi, cavi volanti e travi di legno per pavimento, consentendo di vedere così dietro le quinte e dentro il cuore stesso della cattedrale, i passaggi interni, le colonne viste dall’alto, le crepe e i cedimenti inflitti dal tempo. Al termine della visita, tra i ritagli e le immagini da affidare alla memoria, era nato anche il desiderio di conoscere questo autore.

E così, sfidando la mia pigra inclinazione verso i libri di saggistica, ad agosto, quando un po’ di tempo libero in più si poteva trovare, ho preso finalmente questo libro, ma ho iniziato a leggerlo solamente giunto qui a Melilla, approfittando del primo periodo ancora molto “leggero” e dello splendido parco Hernandez che spesso diventa il mio salotto di lettura all’aria aperta (difficile poterlo fare da qualche parte, in Italia, nel mese di novembre!). Ho cercato persino di vedere se esiste un modo per capire in quanti giorni ho letto il libro, ma a quanto pare tramite il Kindle non è ancora possibile. In compenso mi sono reso conto che ormai sono praticamente 11 anni che mi sono completamente votato al digitale; gli unici libri di carta che ho preso nel frattempo o erano quelli di Massimo (sempre comodo avere un fratello con la passione per i libri di carta) o erano quelli che regalavo alle maestre e ai docenti della scuola!

Ed effettivamente la lettura dei Pilastri della terra si è rivelata molto interessante. Il libro affascina, attrae e si fanno le ore piccole per vedere come avanza la storia; lo stile è scorrevole, accessibile e pur giocando con molti termini tecnici legati all’architettura e alla costruzione di un grande edificio non si rivela troppo ostico (a parte il termine cleristorio che proprio non conoscevo). La storia si dipana nell’arco di 50 anni e segue una discreta platea di personaggi, che crescono man mano che la storia avanza. I protagonisti principali sono meno di una decina e numerose altre comparse entrano ed escono dalla storia nei vari momenti, il tutto senza creare un’eccessiva confusione. La storia è quindi molto ampia, si inizia dall’Inghilterra ma si arriva fino a Toledo, passando per la Normandia, Parigi e occhieggiando fino a Gerusalemme. Inevitabile scorgere qua e là un ammiccamento alla possibile versione filmica del romanzo, come di fatti è poi successo.

Tutto ruota intorno alla costruzione della grande cattedrale di Kingsbridge, nei pressi di una abbazia benedettina. Assistiamo alle vicissitudini di Tom, il costruttore, della sua famiglia “allargata”, dei suoi figli e del suo sogno, di realizzare una grande cattedrale, se non la più grande almeno la più bella. Sogno che poi viene ripreso dal figlio (o meglio, il figliastro) che riuscirà non solo a coronare questa impresa ma ad inserire nello stile romanico, allora imperante, i primi vagiti (e non solo) del gotico. Il tutto sotto lo sguardo paziente e paterno dell’abate Philip, forse il protagonista più coerente di questa grande saga. Gli antagonisti sono numerosi e vanno dal vescovo corrotto al conte violento, senza risparmiare frati ambiziosi ed arrivisti. La storia si conclude inserendo nel romanzo anche il martirio del vescovo Thomas Becket, che si opponeva al Re per limitare le sue pretese di controllo in ambito religioso. Siamo intorno al 1170 e la cura dei particolari, la coerenza storica e la concordanza con i fatti reali rende l’opera abbastanza verosimile.

Assistiamo alla nascita e crescita di un piccolo convento, allo sviluppo di un villaggio che ruota intorno all’Abbazia fino a diventare una grande città con svariate cerchie di mura, mercati e fiere importanti, osserviamo la crescita di giovani e ragazze che dall’adolescenza passano alla vita adulta, al formarsi di una famiglia, alla nascita dei figli, amori, inganni, vendette e violenze varie. Uno spaccato credibile della vita in Inghilterra in questo scorcio di anni, tra carestie e annate grasse, commercio della lana e diritti feudali, cavalieri senza scrupoli e donne ribelli… un campionario di esistenze che ricorda i dipinti di Pieter Bruegel.

Gli unici rilievi che mi sento di fare sono sulla “modernità” di alcuni personaggi che popolano il romanzo. Alcuni sono decisamente troppo attuali, indipendenti e autonomi per essere davvero credibili. Giovani donne emancipate e troppo sicure di sè, in un’epoca dove questi atteggiamenti sono davvero rari. Costruttori così intuitivi da saper gestire cantieri ed opere senza praticamente nulla di più che un forte intuito e qualche rudimento pratico, giovani abati che sembrano reduci da un master di public relation di Harvard per come sono accorti e sofisticati.

Sicuramente anche il quadro religioso che fa da sfondo al romanzo, realistico per molti aspetti, mi sembra spesso allineato su stereotipi un po’ stantii: una visione cupa della religiosità, l’insistenza sulla minaccia dell’inferno, un’adesione spesso di facciata da parte di preti e frati…. Manca in effetti un afflato religioso “vero”, che non sia l’arrivismo dell’abate, il desiderio di primeggiare, di erigere la cattedrale più imponente… Un solo episodio si distacca e si illumina di vangelo, quando l’abate Philip, quasi a fine romanzo, perdona un frate che a suo tempo gli era stato di grave intralcio e che lo aveva pesantemente tradito; accoglierlo nuovamente nel convento, ora che il frate si era ridotto a mendicare, è una delle poche luci che ricordano il senso della vita monastica.

Che dire, Ken Follet è tornato di recente alla ribalta e il suo ultimo libro è già un best-seller. Non era difficile da prevedere!

E la vita Caterina, lo sai…

E la vita Caterina, lo sai…

E la vita Caterina, lo sai
Non è comoda per nessuno…

Chissà in quanti si ricorderanno, da questa striminzita citazione di De Gregori, la canzone intera, una tenera ballata del 1982 (noi si era da quelle parti, a Roma); poi succede che nella vita alcune frasi, alcune melodie, ritornino come sottofondo, stuzzicate ad esempio da un semplice nome. Caterina, in questo caso.

Ho terminato da poco il testo Il Sorriso di Caterina, di Carlo Vecce, docente di letteratura italiana presso l’Orientale di Napoli, su una possibile ricostruzione dell’albero genealogico di Leonardo da Vinci. In pratica la “scoperta” della possibile madre. Ero rimasto colpito da un articolo in prima pagina sul domenicale de Il Sole 24 ore (uno dei miei hobby domenicali, anche qui a Melilla, grazie al web) che presentava questo libro, nato dalla scoperta di un documento da cui traspare la notizia che la madre del grande genio rinascimentale probabilmente era una schiava proveniente dalle zone selvagge intorno al mar Nero (la Circassia).

Stimolato da questo spunto mi sono imbarcato nella lettura, tra l’altro interessante per il linguaggio utilizzato, un misto di italiano scorrevole infarcito di (tanti, a volte troppi) termini tardomedievali, molti desunti dalle pratiche mercantili o notarili. Altra curiosità è la voce narrante, che cambia in pratica ad ogni capitolo (e non sono pochi!), dando così la possibilità all’autore di toccare corde e modalità sempre diverse, anche se il risultato sicuramente non è così definito, le voci sono molto omogenee, tra l’altro tutte al maschile, anche se i personaggi femminili sono numerosi nel libro. Passano così in rassegna abili mercanti, ex-pirati, commercianti, nobili decaduti, notai (il padre di Leonardo), amici facoltosi, gente umilissima… uno spaccato di quella società gravida dell’uomo nuovo del rinascimento.

A dire il vero la storia è molto romanzata e la ricostruzione che ne fa l’autore è certamente molto personale, anche se suffragata da diverse prove. Ma è come ricomporre un puzzle con pochi pezzi e nel dubbio ritenerlo un quadro ormai completo; in rete non è difficile, ad esempio, trovare altre recensioni ben più critiche e documentate di quanto un semplice lettore potrebbe dedurre dalla pura lettura.
Ma con Leonardo, fantasticare non è di certo un grave misfatto, anzi…

La trama potrebbe essere semplice, una spedizione di soldati alla ricerca di schiavi e conquiste raggiunge le zone della Circassia, intercetta un drappello di soldati guidati dal coraggioso capo locale, un certo Jacob che si era portato appresso anche la figliola poco più che undicenne e camuffata da maschietto. Il padre viene ucciso e il giovane ragazzo viene catturato, inizia così una lunga odissea che la vedrà percorrere un lungo itinerario mercantile, dalla Tana (la zona di giurisdizione veneziana e genovese del Mar Nero) a Costantinopoli, poi Venezia, la laguna e infine le zone vicino a Firenze, Vinci, per concludere.

Ad ogni capitolo il narratore è anche la persona incaricata o il padrone o il benefattore di questa giovane fanciulla, strappata ad un mondo tra il magico e l’agreste, il selvaggio e l’arcaico. Ha già un nome, Caterina, un piccolo anello dono del padre (di quelli provenienti in gran quantità dal monastero di s. Caterina in Terra Santa, a quell’epoca molto diffusi), probabilmente è anche battezzata, ma è ormai destinata al ruolo di “schiava”, una cosa umana che può passare di proprietà come un mobile o un terreno.

Difficoltà, problemi economici, piccoli e grandi soprusi, intrecciati agli eventi dell’epoca, sempre presenti sullo sfondo. La storia appare molto ben documentata, la narrazione è accurata e stracolma di dettagli, elenchi, riferimenti normativi alla legislazione dell’epoca… l’erudizione e la tecnica non mancano di certo al nostro autore!

Il penultimo capitolo vede scendere in campo nientemeno che il figlio, Leonardo in persona (e non è certo facile mettersi nei suoi panni!) che intesse con questa donna un rapporto sicuramente forte e struggente. Non scendo ovviamente in altri particolari, oltre a quel sorriso che rimanda alla Gioconda e che nell’invenzione dell’autore nasconde forse il ricordo felice della madre.

Quello che mi ha colpito di più è invece la riflessione finale dell’autore, che riletta alla luce dei tempi che stiamo vivendo trovo ampiamente condivisibile e illuminante, nonostante un tono quasi omiletico. E’ un’accorato e forte richiamo alla necessità dell’accoglienza: riporto direttamente solo un passaggio:

 […]  è la gloria più bella di questo nostro meraviglioso Paese, di questa penisola slanciata nel Mediterraneo come un immenso ponte di popoli, culture, civiltà, lingue e arti, che senza sosta nei millenni si sono incontrate e invase e mescolate, da Nord a Sud e da Oriente a Occidente, dall’Europa all’Africa e viceversa, terre e isole naviganti, migranti che arrivano e partono, assetati di vita e di conoscenza. La civiltà italiana non esisterebbe se qualcuno avesse chiuso i nostri porti.  […]  


Ovviamente sono molto di parte (la stessa parte con la quale mi ritrovo), ma penso di essere in buona compagnia.

Alla fine di tutto… se acabò

Alla fine di tutto… se acabò

Da quasi 3 settimana ho iniziato la mia nuova full immersion nello spagnolo. Diventa così facile accostare il titolo del libro che ho appena terminato, Accabadora, con questo termine in castellano: se acabò = è finita. E sono ben noti gli strascichi culturali che la presenza spagnola-catalana ha esercitato in Sardegna….

Dopo l’enfasi estiva che ha segnato la fine umana di Michela Murgia, con rigurgiti di commenti, critiche, incensazioni, beatificazioni ed ostracismi vari, mi sono preso il tempo necessario perché tutte queste onde si placassero e lasciassero spazio a qualcosa di meno strillato.

Avevo già letto qualcosa della Murgia (Ave Mary, Noi siamo tempesta, Morgana…) e lo stile interessante e fresco mi era rimasto impresso. Così mi sono ritagliato un piccolo angolo di tempo per leggermi questo suo primo libro, che probabilmente è la sua opera più intensa.

Incredibilmente si trova persino in rete, liberamente disponibile (e sulle pagine di una risorsa accademica piuttosto nota), sicuramente come corollario di altri studi su questa pratica decisamente insolita che traspare in filigrana fin dalle prime pagine del libro.

Fino a ieri, 17 settembre, era ancora uno dei romanzi in posizione alta della classifica (come riportava il domenicale de Il Sole 24 ore), segno che l’attenzione non si è ancora del tutto sopita.

Lo stile, dicevo; essendo un’opera prima è necessario quasi che ci sia una cifra distintiva e sinceramente si avverte in tutto il testo una capacità narrativa intensa.

Ma era la storia che mi interessava maggiormente. Non conosco quasi per niente la Sardegna, ci sono capitato una volta per caso, a Cagliari, per un corso a docenti dell’istituto salesiano. In quell’occasione avevo incontrato anche un amico compagno di studi, come altri sardi che ho incontrato “da piccolo”; una realtà culturale che ha sempre destato in me una certa curiosità e attenzione, sia per la lingua che per quel senso di isolamento che si avverte subito.

Mi sembrava anche interessante la parabola umana della Murgia, di formazione e impegno fortemente cristiano, studi e attività che richiedono una preparazione non superficiale o frettolosa, e quindi una successiva riflessione e maturazione ben evidenti.

La storia di questa bambina che viene praticamente sottratta ad una famiglia (che di figli ne aveva già abbastanza e di problemi anche) da una “tzia” apparentemente sarta. Che poi, ogni tanto, di notte, scompare, quasi sempre nei pressi temporali di un funerale. Ma come può una bambina collegare certi fatti. Sino a quando gli anni passano e un evento in particolare svela il ruolo così unico di questa zia, che quasi in continuità con ancestrali riti tribali viene chiamata al capezzale di persone ormai senza speranza di guarigione o di ripresa, per accompagnarle pietosamente alla morte. Insomma, una pratica evidente di eutanasia, sia pure pervasa da sentimenti di misericordia, per quanto vaghi.

Quello che mi ha un po’ stupito è invece la riflessione o l’approfondimento su questo tema, del tutto assente, un aspetto sicuramente voluto. Non si tratta di aprire un dibattito (il libro è uscito nel 2009) o spezzare qualche lancia. Semplicemente si narra questa realtà, legata ad un paesino ancora culturalmente arretrato della sardegna e forse questa non è la parola migliore, si potrebbe tentare un abbarbicato ad altri valori pre-cristiani?

Il lettore decide, legge, ascolta e può esprimere il suo consenso o il suo fastidio. In un’epoca quasi pre-industriale o moderna, siamo negli anni 60-70 del secolo scorso, si assiste a scene e dialoghi che probabilmente abbiamo ancora incontrato nella nostra infanzia, spettatori di una società in rapida evoluzione. In fin dei conti siamo passati quasi tutti, in Italia, da una profonda dimensione agricola-preindustriale ad una rapida urbanizzazione. In pochi anni il televisore ha soppiantato la stufa o il camino e le dinamiche familiari sono cambiate così in fretta che alcune generazioni hanno condiviso epoche metabolizzate con rapidità eccessiva.

Libro interessante, che si fa leggere rapidamente (in due-tre giorni l’ho concluso) e che obbliga comunque a pensare, se non altro a chiedersi: sono d’accordo? si potrebbe ancora fare? è un retaggio quasi natural-agreste?