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A cosa serve uno sportello…?

A cosa serve uno sportello…?

La parola “sportello” sta rimbalzando molto di frequente, non solo nella mia testa ma anche tra i miei vicini più “stretti”, insomma, tutta la comunità, visto che al momento dovrei essere coinvolto in almeno 2 o 3 di queste iniziative e questo logicamente ha i suoi risvolti, di tempo e di attenzione, che coinvolgono tutti gli altri.

Ad esempio mi viene in mente quanto abbiamo realizzato, per lo sportello del Polo Sociale, nel caso di Aradia, una bambina cingalese di 9 anni. Il papà era qui in Italia da numerosi anni e come spesso accade si ripete la storia del genitore che viene prima ad esplorare il territorio e le opportunità, poi, gradualmente, riesce a trasferire il resto della famiglia. Potete immaginarvi le difficoltà e la distanza, separarsi dalla famiglia per 2-3 anni (quando va bene!) prima di coronare questo sogno.

Nel caso del papà di Aradia le cose sono andate abbastanza bene, ha trovato lavoro, una sistemazione e finalmente ha potuto trasferire il resto della famiglia qui a Siracusa. Nel mese di febbraio è arrivata così anche la piccola Aradia, che aveva già frequentato regolarmente la scuola in Sri-Lanka ma ora si preparava ad un grande passaggio; scuola nuova, amicizie nuove, nuovo quartiere… Non è un passaggio da poco.

Il papà così aveva chiesto alle scuole vicino alla sua residenza, ma vuoi per le difficoltà di linguaggio (“Compili il modulo allegato che può scaricare online dal sito della scuola oppure richiedere formalmente alla segreteria, questa è la procedura…”), vuoi per la poca conoscenza dei tempi e delle possibilità, la scuola aveva risposto che non c’era posto e che se ne poteva riparlare per l’anno prossimo. Spesso, a queste risposte, ci si rassegna e si aspetta.

Per fortuna la rete di contatti che ormai abbiamo steso sul territorio ha portato questo genitore a chiedere anche a noi se era possibile aiutarlo in questa impresa. Così ci siamo subito attività, con Maria e gli altri amici dello “sportello Polo Sociale”. Ci sembrava strano che la scuola avesse dato una risposta negativa, ma conoscendo la realtà locale abbiamo subito cercato di contattare la dirigente della scuola. Spesso i contatti diretti con i responsabili sono più efficaci di altri percorsi. E infatti, nel giro di poche chiamate, siamo riusciti a fissare un appuntamento. Intanto avevamo approfondito la conoscenza della famiglia, vista la bambina, che non aspettava altro di poter finalmente entrare nella nuova realtà.

L’incontro con la dirigente e le docenti della scuola si è rivelato molto cordiale e accogliente; accompagnando il genitore, cercando semplicemente di mediare, completando il discorso e chiarendo gli aspetti difficili, le difficoltà si sono rivelate superabili. La bambina è già ben scolarizzata e la conoscenza dell’inglese che già conosce, anche se piuttosto semplice, permetterà alle maestre di interagire senza la necessità di un mediatore linguistico (e se proprio servisse, il nostro sportello potrebbe persino fornire alcune ore di questa mediazione, se fosse indispensabile). Alla fine del dialogo la segreteria si è messa subito a disposizione, abbiamo aiutato il genitore a compilare il modulo di iscrizione (ogni scuola ne ha uno differente, e le pagine spesso scoraggiano il genitore straniero); e avendo ormai esperienza dei nomi cingalesi, lunghissimi e quasi impronunciabili per noi locali, l’impresa non è sempre facile. Ma ci si riesce.

Il saluto finale della dirigente è stato davvero incoraggiante: “Allora, domani ci vediamo a scuola”.

“I love this school”, è stata la risposta spontanea della bambina.

Insomma, nel giro di poche ore la situazione si è risolta in modo positivo. La bambina sta già frequentando serenamente le lezioni nella sua nuova classe (in considerazione della sua età e delle difficoltà iniziali della lingua, al momento è stata inserita in una classe seconda; in seguito si vedrà se confermare o modificare questa scelta. Ma intanto il “diritto alla scuola” è assicurato.

Naturalmente il lavoro non è concluso: prossimamente ci siamo ripromessi di valutare questo inserimento e in seguito dovremo aiutare ancora il genitore per l’iscrizione dell’altro bambino che nel prossimo anno inizierà la scuola. Ma gli inserimenti scolastici sono un po’ come le ciliegie, uno tira l’altro e avere una figlia inserita nella scuola semplifica tutto il resto.

Una caletta che merita…

Una caletta che merita…

Per prima cosa sbagli sicuramente l’accento. Ognina fa pensare a qualche ninfa svolazzante sulle onde, una Ondina esotica. E invece i siracusani ti guardano un po’ strano se metti l’accento sulla i; devi proprio sforzarti e farne di ogni per riportare le cose alla pronuncia corretta: ògnina, infatti.

Ma se poi decidi di inforcare la bici, approfittare di una splendida mattinata primaverile per andare a scovare questo angolo di paradiso, allora anche gli accenti scivolano leggeri. Però devi mettere in conto che una quindicina di km sono sempre una bella pezza di pedalata da considerare, la prima parte sulle strade trafficate di una Siracusa che inizia a sentire la bella stagione e poi, prendendo le stradine dell’Isola, su strade tranquille e scorrevoli: comunque lunghette.

In sintesi questo è l’itinerario, realizzato con l’App di Komoot

la zona di Ognina, su GMaps

Arrivati all’ultima rotonda ufficiale con il bivio per Ognina o Fontane Bianche, si apre il dilemma: passare dalla zona cittadina, con le sue innumerevoli costruzioni più o meno eleganti e spesso poco inserite in questo pezzo di costa, oppure tentare la via dei campi; dalle mappe le stradine sembrano tutte percorribili, ma spesso ti trovi davanti un cancello semiaccostato che scoraggia un po’. Per l’andata ho preferito la strada bucolica. E il cancello semiaccostato; non me ne voglia il contadino.

Così costeggiando una vasta coltivazione di patate (che qui sembrano davvero aver trovato un habitat ideale), costellata di tubazioni per l’irrigazione a pioggia (ci saranno chilometri di tubi di plastica, e anche in questo caso la domanda sul destino di tutte queste infrastrutture è d’obbligo), si giunge finalmente in vista del mare. Sembra quasi di costeggiare la foce di un fiume, ma si tratta solo di una insenatura profonda, che tra l’altro ha persino la sua bella isola come conclusione del panorama. Sul lato nord le case, il solito guazzabuglio di abitazioni costruite a ridosso del boom degli anni 60 mentre su quello sud, per fortuna, la natura ha prevalso e non vi sono costruzioni di sorta. Il litorale risulta quindi abbastanza conservato e naturale.

Anche se l’occhio non può che soffrire nel vedere questo terreno letteralmente costellato di brandelli di plastica, strascichi delle coltivazioni, dei teli di pacciamatura ben poco ecologici che ancora vengono utilizzati in grandi quantità. Sarà che poi questa plastica è verde e si mimetizza meglio, ma al terreno non fa certamente bene. E arriva fin quasi al mare…

Spingendosi qualche decina di metri ancora più a sud, si arriva a ridosso della caletta di Ognina, un luogo veramente suggestivo e se non ci fosse all’orizzonte la silhouette di Siracusa potresti facilmente pensare di essere in qualche isola o località da sogno.

La spiaggia che si prospetta, riparata da un costone che lentamente si sta consumando ma che, con la sua bordura di piante, contribuisce ad isolarla e proteggerla, sarà lunga un centinaio di metri, una insenatura protetta e sabbiosa, il che la rende una zona appetibile e gradita, visto che poco più avanti tutto si trasforma in dura scogliera e ruvido pavè roccioso. Avevo scelto un orario poco indicato per le escursioni, ma arrivando qui proprio alle 13, la spiaggia era completamente deserta. Un angolo di paradiso ideale per un momento di solitudine e di contemplazione. E qui le cose da apprezzare sono davvero tante.

Ho provato naturalmente la temperatura dell’acqua, decisamente troppo fresca per concretizzare l’ipotesi del primo bagno di stagione, ma gradevole per una passeggiata sul bagnasciuga. Che peccato però dover contemplare anche qui brandelli di sacchetti di plastica, cocci di vetro smerigliati dalle onde e la consueta corona di bottiglie sulla spiaggia.

E dopo non molto ecco arrivare, con il suo tipico fragore, una scorribanda di moto da cross che un paio di volte hanno percorso la spiaggia con il corollario di frastuono, confusione e inquinamento vario. Probabilmente siamo in una zona protetta, ma a quanto pare non ci sono controlli di sorta; potrebbe essere un bene e stimolare il senso civico, ma per il momento questo è il risultato e la situazione.

Dopo una pausa di relax sulla spiaggia ho provato a costeggiare ancora il territorio vicino, giungendo fino alla Torre di Ognina, una sorta di punto panoramico non lontano da questa caletta. Si percorre un sentiero a fil di roccia sul mare, suggestivo e gradevolissimo. Lo spettacolo che si coglie dall’alto mostra chiaramente lo stacco tra la zona urbana e il resto del territorio, ancora intatto. Anche questa zona meriterebbe un altro approfondimento, con un semplice trekking che permetta di visitare le numerose insenature che si aprono man mano, fino ad arrivare alle prime case di Fontane Bianche.

E non poteva quindi mancare un album fotografico su questo luogo meraviglioso

Se capitasse a noi…

Se capitasse a noi…

Ho incontrato i libri di Nicolò Govoni un paio di anni fa e sono rimasto colpito dalla sua traiettoria umana, in piena “ascesa” e per molti versi davvero esemplare. Da un semplice (semplice? mica tanto) inizio come volontario fino a trasformare questo suo desiderio in una forte decisione che ha letteralmente trasformato la sua vita. Continuo a seguirlo su Instragram (uno dei pochi che guardo con attenzione) e nei vari eventi in cui rintraccio la sua presenza. Mi sembra un esempio davvero luminoso di come si possa prendere sul serio la vita e tutto ciò che le gira intorno, senza lamentarsi di quanto male vadano le cose, ma rimboccandosi le mani e cercando di fare la propria parte.

Il suo primo libro, letto un paio di anni fa, racchiudeva la sua esperienza vitale; una sorta di diario che spiega anche la nascita dell’organizzazione umanitaria Sill I Rise. Di solito non dedico molto tempo o spazio alla narrativa, ma l’idea di curiosare sul suo recente romanzo, Fortuna, era ben motivata. Mi sono ben guardato dal leggere qualche recensione prima (anche se le stelline sintetiche sono sempre e comunque un richiamo, un canto di sirena), ma dopo pochi giorni di lettura, ritagliando il tempo quando capita, penso di aver impegnato bene questi momenti. Sarà l’affinità dell’impegno, la sintonia di idee, ma la storia è interessante…

All’inizio del racconto si fatica, volutamente, a situare bene i confini e individuare i personaggi. Chi sono queste 3 persone sul barcone, poi sbarcate, separate, profughe in qualche remota parte del mediterraneo? Avendo toccato un po’ con mano questa realtà, uno si immagina subito un parterre di volti africani, di profughi asiatici… quando invece, dopo alcune pagine, si fa strada la consapevolezza che i migranti di questo volume provengono dall’Italia, da una Milano da poco colpita dai bombardamenti (addio, povero Duomo), una società dilaniata dalla guerra civile e da una morte grigia che reclama il suo tributo di mascherine e contagi, comincia a farsi strada una domanda: e se tutto quello che riguarda i migranti di oggi dovesse toccare a noi? Se dovessimo essere noi i passeggeri e protagonisti dei naufragi, dei respingimenti, delle assurdità burocratiche che spesso vedo ripetersi nei confronti dei nostri ragazzi del Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Bangladesh…?

L’idea di un ribaltamento totale (noi al posto di “loro”) viene spesso utilizzata per innescare discussioni e riflessioni, ma non mi risulta che finora fosse il perno di qualche romanzo d’attualità, è comunque una idea che regge e stimola la riflessione.

La vicenda si concentra poi sull’enorme campo profughi in cui i nostri 3 protagonisti vengono inseriti; un centro diretto dalle grandi organizzazioni umanitarie, raccolte sotto l’egida di una Fortuna corporation. In questa sede i migranti sono divisi per provenienza e troviamo quindi gli italiani, i francesi, i greci, i tedeschi… Sarebbe interessante immaginare proprio noi, con la nostra storia e cultura, nei panni dei profughi per guerra, carestie, epidemie. Cosa succederebbe?

Nel campo si agitano diverse iniziative e strategie (niente spoiler) ma i protagonisti poco alla volta si trovano impegnati in uno sforzo di liberazione che si concluderà, con numerosi colpi di scena, in uno scenario non del tutto rassicurante, ma per lo meno in grado di scrollare di dosso la sensazione di essere tutti parte di un grande meccanismo difficilmente superabile.

Nel romanzo mi sembra di cogliere alcune parti un po’ ingenue e alcuni meccanismi forse un po’ precipitosi (ragazzini che sanno a malapena leggere che in poche settimane diventano abili hacker in grado di riconfigurare un sistema informatico, giovanissime fashion-blogger in grado di affrontare situazioni critiche e rivolte popolari, capi politici e masse di gente che agiscono all’unisono in modo un po’ semplicistico, ragazzine quindicenni che si esibiscono in discorsi di feconda oratoria…) ma mi sembrano peccatucci veniali che non tolgono al testo la capacità di suscitare domande. E le domande che Govoni propone servono per formulare le risposte che oggi servono. Nella chiusa del libro l’autore traccia una breve sintesi del suo ultimo impegno, dalla visita al campo profughi di Lesbo, alla fondazione di una prima scuola per difendere i diritti dei minori, poi la fondazione di una simile scuola in Turchia e finalmente in Kenya, dove oggi l’associazione di Govoni è in grado di offrire ai bambini persino un baccalaureato prestigioso a costo zero. Penso che questo traguardo sia stato raggiunto passando tra i tanti problemi che il libro stesso affronta e presenta in modo romanzato. Un testo originale e capace di far riflettere sui meccanismi che oggi dirigono e conducono le danze sul tema delle migrazioni.

Complimenti all’autore e non solo per il libro…

Piccola kermesse domenicale

Piccola kermesse domenicale

Domenica 27 marzo abbiamo vissuto alcuni momenti speciali, con tutta la nostra comunità marista, su invito del centro missionario diocesano. Insomma, ancora una volta p. Salvo ci ha “ingaggiati”. Ma ben vengano queste iniziative…

Si trattava dell’evento “Missio-fest” che da un paio di anni era rimasto chiuso nel cassetto (nelle nostre narrazioni ormai esiste un pre- e un post-lockdown o era-covid!). Con un largo battage e contatti mediatici, quest’anno si è ripartiti, finalmente in presenza e con un bel po’ di gente. A dire il vero i prenotati erano oltre 200 ma poi, complice una giornata che minacciava pioggia, tempo incerto e chissàcosaltro, i presenti erano decisamente di meno, diciamo una metà.

La mattina della domenica prevedeva un itinerario molto semplice: una chiesa disponibile per l’adorazione, un’altra con la presenza di sacerdoti per il sacramento della riconciliazione e un paio di luoghi per ascoltare delle testimonianza. Una coppia fidei donum, una comunità di missionari di Modica (proprio della comunità dove ora risiede p. Gigi Maccalli, che però non era presente in questa occasione) e poi… noi della comunità Marista, ad accogliere i gruppi nella chiesa di s.Giuseppe. Con la scusa che i maristi sono chiaramente abbinabili con la scuola, il nostro simbolo indicatore era belle che pronto: uno zainetto, libri e quaderni e …scuola sia!

Intanto in piazza Minerva, a fianco della cattedrale, gli stand del CSI per consentire minitornei di volley, di calcio, di minibasket. Più mini di così…

Era il giorno in cui arrivava anche un nostro ospite, fr. Orlando, un fratello colombiano, provinciale della Norandina (Ecuador, Colombia, Venezuela…) e Ricky era andato ad accoglierlo a Catania, ma sarebbero arrivati in tempo almeno per l’ultimo incontro.

la comunità (quasi tutta) con fr. Orlando

Schema semplicissimo: con Nina e Kike dovevamo semplicemente spiegare chi sono i maristi, come mai sono finiti qui a Siracusa e soprattutto qual è oggi il nostro impegno “missionario” nei confronti dei migranti. Quando si parla delle cose che si fanno ogni giorno e che si condividono insieme, non è molto difficile coordinarsi. E infatti nei 2 momenti di incontro non ci è stato difficile ricordare e presentare queste cose.

Giunti al fatidico problema del mezzogiorno, ci siamo incontrati con gli altri testimoni nei locali vicini a piazza Minerva, proprio dove ha sede l’Info point e la sala con la proiezione della ricostruzione in 3D dell’antica Siracusa (che ci hanno gentilmente offerto in visione). Un pranzo tranquillo con gli altri testimoni, uno scambio di esperienze e di contatti anche per noi.

Subito dopo l’organizzazione prevedeva un momento di festa e musica, aperto da una performance degli alunni dell’Inda, sul tema fin troppo attuale della guerra, anzi, di tutte le guerre.

E subito dopo, nel particolare scenario del cortile dell’Arcivescovado, con le colonne greche e romane a fare da sedili (insolito assieparsi su cimeli di 2000 anni fa, con la nonchalance dei giovani d’oggi), il concerto del gruppo Basic (alla chitarra il don, ovviamente), con una notevole voce solista femminile e un repertorio abbastanza rockettaro (a iniziare dalla cover di apertura dei The Sun, l’ormai conosciutissima Onda). Peccato per le goccioline di pioggia che consigliavano di restare ai bordi e non sotto palco ma l’effetto era discreto. Mi aspettavo quasi che a fine concerto si trasferissero direttamente in cattedrale, cambiare repertorio, ridurre i distorsori e passare ai canti della messa, ma … era stato previsto anche qui un ottimo intervento di un coro più “liturgico”.

La messa a conclusione della giornata era ovviamente presieduta dal vescovo. Un segno di attenzione e di partecipazione non scontato e quindi positivo. Ma non chiedetemi della predica; sicuramente il nostro Vescovo è un esperto biblista, ma il dono della parola non si alimenta solo di buone conoscenze. Ma siccome è la somma che fa il totale, il risultato finale mi sembra comunque positivo. Ce ne eravamo già accorti, insieme a Nina, la sera prima, durante la veglia sui martiri missionari, dove l’intervento del vescovo non aveva lasciato particolari tracce, ma il contesto aveva parlato in modo esauriente.

Cosa FAI di sabato?

Cosa FAI di sabato?

Lo scorso anno mi ero avventurato un po’ alla buona sulla balza d’ingresso della città di Siracusa, la parte nord, che nasconde alcune memorie importanti dell’antica città greca. Quest’anno, quando ho letto che le passeggiate primaverili del FAI avrebbero percorso proprio quell’itinerario mi ero riproposto di andare con loro. Persino la CRI stava cercando volontari per accompagnare l’evento (tra uno sbarco e l’altro, che non sono proprio diminuiti in questo periodo, anzi…). Ma avendo un po’ di impegni imprevisti non mi ero ancora deciso… però, una volta presa la bici e arrancato per la salita che porta al pianoro di s. Panagia, il grosso era fatto.

Era un sabato ancora freschino e poco invitante; non sapendo esattamente da dove iniziava il percorso, ho provato per prima cosa la discesa nord, quello scorcio inguardabile di Siracusa dove la strada di uscita è affiancata dal rudere di un ponte in cemento armato davvero penoso. Al suo fianco abbiamo rovine greche di 2500 anni fa, ancora in perfetto stato e questo manufatto di cemento degli anni ’70 è davvero un pugno nell’occhio, sbriciolato, rovinato, arrugginito. Un insulto alla bellezza.

Poco dopo la discesa si vedevano già le persone, radunate a gruppetti, che visitavano il luogo. Un luogo solitamente popolato da mucche e animali, aperta campagna; parcheggiata la bici nell’unico spiazzo possibile, ho provato anche a passare da qualche varco. In teoria il terreno è pubblico e di libero accesso, ma è quasi interamente circondato da filo spinato e a volte anche filo elettrico, per le mucche, appunto; ma è quasi una barriera insormontabile che la dice lunga sulla facilità di accesso a queste zone.

Dopo aver chiacchierato con un collega della CRI per sapere dov’era l’ingresso ufficiale, riprendo la bici e mi avvio verso un altro luogo ben conosciuto: la scuola Giaracà, dove ero stato proprio pochi giorni prima per aiutare un genitore cingalese nella difficile impresa di iscrivere la figlia a scuola (difficile perché alla sua richiesta aveva trovato molte difficoltà e porte chiuse che siamo riusciti a superare con la mediazione del nostro sportello del Polo Supreme…). In fondo alla strada altri volontari della CRI, della protezione civile e del FAI; così sono riuscito ad agganciarmi all’ultimo gruppo in visita per la giornata, superando, con sprezzo del pericolo, un branco di lupetti (tranquilli, era l’Agesci), anche loro in visita.

Avevo già visto per conto mio la parte iniziale, ma seguirla con una guida più esperta è sempre un vantaggio; la strada antica, sulla quale era posizionata la porta d’ingresso, sistemata strategicamente in una curva della roccia, si rivela molto suggestiva, anche se oggi rimane solo l’asse viario, con i suoi solchi ben tracciati che rispecchiavano gli assi dei carri; interessanti le buche circolare per facilitare lo sforzo degli animali, che potevano così far maggior presa sul terreno roccioso.

La guida ci ha illustrato a brevi cenni la presa di Siracusa da parte dei romani, sotto la guida del console Marcello; la leggenda recita che i romani, approfittando di uno scambio di prigionieri, avevano adocchiato, potendo guardare dall’interno delle mura, alcuni lati più deboli e poi, nel mese di aprile, mentre i cittadini erano distratti dai riti e processioni alla dea Artemide, che proprio in questa zona a nord aveva una grotta a lei dedicata, hanno attaccato nella zona di Epipoli, ben lontana dal luogo in cui si assembrava la gente; nel giro di pochi giorni Siracusa capitolò. Iniziò così la sua fine.

Proprio nella zona vicina alla grotta si trovano molte vasche e altri manufatti, sembrano loculi e tombe, sono invece i resti di opere idrauliche, poiché in questo luogo passava un antico acquedotto.

La grande grotta che ospitava i riti e gli ex-voti, sembra essere citata persino nell’Odissea, dove si parla di luoghi feraci lungo la costa sicula osservati da Ulisse in persona. Più in alto ci sarebbe anche un’altra grotta, più lunga e sottile, a coda di topo, ma non visitabile.

Diodoro Siculo riporta che ad Artemide erano sacri anche i pesci e qui vicino c’era il porto (siamo nella zona di Targia) e anche un bosco sacro, come riporta Teocrito che narra del rito di animali portati in sacrificio (e non per niente l’archeologo Paolo Orsi in queste zone ha trovato la statua di una pantera), l’evoluzione linguistica, sociale e dei riti religiosi favorirà il passaggio dalla greca Artemide alla latina Diana, poi con l’avvento del cristianesimo, questo culto decade rapidamente.
Artemide era quindi una divinità selvaggia, dionisiaca, ma non violenta. Sarebbe bello immaginare questi luoghi, ora spogli e con pochi arbusti, rigogliosi di boschi e di acque. L’idea della passeggiata era anche questa rivisitazione. Infatti seguendo il sentiero (privato) che conduce fino a quello che viene considerato un casino di caccia di Federico II, a volte denominato anche come castello di Targia, o anche “solacium” (luogo di sollazzo, concretamente), la guida ci ha informato che oltre al buon Federico II veniva a prendere un po’ di riposo da queste parti lo stesso dittatore Gelone anche se gli archeologi non hanno mai ritrovato il luogo esatto citato nei documenti antichi.

Passiamo vicino a terreni dove le piante sembrano voler riprendere il sopravvento, ma scorgere eucalipti in queste zone è decisamente poco gradevole: sono piante non adatte al territorio, importate dopo il 1700 e predatrici di acque, insomma, quanto di meno adatto in zone calcaree e mediterranee. Ritrovare la macchia mediterranea sarebbe veramente una gradita sorpresa.

Abbiamo proseguito l’itinerario dalla grotta fino a una costruzione rustica (a metà strada tra l’Artemision e il casino di caccia, oggi proprietà della famiglia Pupillo, che lo utilizza per eventi e matrimoni); in realtà si tratta di una delle tante torri di avvistamento fatte costruire da Carlo V per proteggersi contro eventuali assalti dei Turchi. Una torre che si confonde con le case rurali che segnano il territorio, ma da vicino si notano subito gli elementi antichi, con tanto di targa in latino che ricorda l’epoca di fondazione.

Finita la visita trovo il tempo per curiosare anche nei pressi di un’altra grotta, proprio sotto la balza che disegnava le mura quasi naturali di Siracusa. All’ingresso ci sono due sorprese: un favo di api in bella vista, completamente al naturale e senza rivestimento (siamo così abituati a vederle solo negli alveari che scoprirle in questa mise un po’ selvaggia fa pensare più alle vespe che ad altro), e poco sotto una pianta di capperi che ha deciso di sfidare la legge di gravità, percui le radici sono ben fissate in una fenditura in alto mentre i rami scendono a fiorire in basso. La grotta è anche interessante, molto profonda e ampia, asciutta, sicuramente utilizzata in tante occasioni, anche se attualmente sembra semplicemente uno stabbio per i vari animali che periodicamente abbelliscono il panorama (e costellano il terreno di abbondanti ricordini…). La voglia di continuare a curiosare in queste zone si fa strada. Forse per altre occasioni.

Un itinerario niente male, per un sabato pomeriggio inizialmente quasi vuoto e privo di sorprese 😉

Ecco qualche scorcio di questa passeggiata con il FAI nei pressi della scala greca