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Categoria: luoghi

Papiro canta…

Papiro canta…

Cosa si sarà dovuto sorbire il povero Renzo dal suo cavilloso Azzeccagarbugli, a sfogliare le grida, i fogli, la carta insomma. E da che mondo è mondo, così come lo conosciamo noi, la carta la fa spesso da padrona. Ma prima?

Un piccolo gioiello che esiste solo qui a Siracusa è il Museo del Papiro, probabilmente l’unico al mondo a raccontare la storia di questa pianta e mostrarne gli usi che ne tempo ne sono stati fatti, principalmente come supporto culturale e strumento di comunicazione.

Dalle descrizioni che si trovano sul web è facile capire cosa contiene: “consigliato soprattutto agli appassionati di storia e in particolare dell’antico Egitto: il Museo del papiro Corrado Basile di Siracusa è l’unico al mondo dedicato interamente alla carta degli Egizi. I pezzi esposti, i filmati e gli ausili didattici accompagnano il visitatore in un viaggio nel tempo: fra le altre cose, è possibile ammirare papiri dal XV secolo a.C. all’VIII secolo d.C., i frammenti di papiri e di materiali lignei carbonizzati nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., i papiri prodotti a Siracusa dal XVIII secolo, manufatti in papiro (recipienti, sandali, corde, stuoie) e una fornitissima documentazione sulle origini del papiro e sulla sua lavorazione a Siracusa e in Egitto. (fonte)

Ho aspettato un bel po’ di tempo per poterlo visitare con calma, questa domenica mattina, con le finestre spalancate sul mare, il vento che sciorina le bandiere nel sole, la calma di chi si gode questi giorni di Siracusa con la tranquillità della poca folla e del ritmo più tranquillo. Anche perché l’altra volta che avevo tentato di visitarlo, mi ero arenato all’evidenza: io non porto mai contanti in tasca, ormai uso solo e sempre il telefono come pocket money, ma questo è un museo piccolino, a conduzione davvero familiare e il pos non è presente. Peccato, mi ero detto quella volta, nella scorsa primavera. Ma oggi mi ero attrezzato, anche perché tra covid e lockdown il periodo di chiusura di questa risorsa si è prolungato praticamente fino a questa estate.

Parcheggiata la bicicletta a ridosso del cortile interno del bel palazzo che ospita il museo, subito viene voglia di chiedersi: ma perché non ci sono delle belle piante di questo specialissimo papiro che praticamente è un’esclusiva di Siracusa? Ci starebbe davvero bene, ed è proprio una delle cose che poi ho suggerito al curatore del museo.

Perché la cosa sorprendente non è stata tanto il museo, quanto la presenza vivacissima del suo fondatore e curatore. Un museo che si intitola “Corrado Basile” fa subito pensare al busto in marmo di un qualche illuminato magnate del 700, un mecenate del secolo scorso, come minimo. E invece il sig. Corrado Basile è una simpatica e vivace presenza che vive e si muove tra le sale di questo straordinario museo. Ero appena entrato e un signore molto cordiale ha invitato me e l’altra coppia in visita a guardare il video che aveva appena avviato nella sala delle proiezioni. Poi alla fine lo vedevo molto disponibile a scambiare due parole con i presenti, a spiegare nel dettaglio, a fornire indicazioni… così ho azzardato la richiesta se fosse lui il curatore del museo.

Era proprio lui e da quel momento ha iniziato a spiegarmi anche quanto nelle poche sale aperte al pubblico non è sempre possibile racchiudere. Mi ha parlato del prossimo appuntamento importante di fine mese, per il prossimo XX convegno internazionale di egittologia e papirologia, mi ha gentilmente aperto i cordoni (letteralmente, facendomi entrare nelle zone riservate). Si scusava per il disordine e per lo stato di lavori in corso, ben sapendo che un museo vivo dovrebbe sempre avere questo aspetto, con i tavoli ancora ingombri di manifesti, carte, lettere e pubblicazioni. Visto il mio interesse si è prolungato nel mostrare i tanti riconoscimenti ricevuti nel tempo, le persone illustri che ha incontrato e che si sono ritrovati qui a Siracusa proprio grazie al papiro. Si è tolto anche qualche sassolino dalle scarpe quando gli ho chiesto se tutto il palazzo era riservato al Museo e mi ha fatto capire che le tante promesse della politica si sono impantanate rapidamente disperdendo le risorse verso altri rivoli (in effetti tutto il palazzo dovrebbe essere destinato a questo museo, ma entrando, sulla sinistra, si leggono anche altre dedicazioni, tipo “esposizione di arte contemporanea…”. Si avverte subito il piglio dell’appassionato che ha dedicato tutta la sua vita a questo entusiasmante prodotto che mette poi in collegamento con quanto di più importane la nostra cultura conserva e tramanda.

La passione per il papiro si è estesa velocemente anche all’interesse per l’ambiente, soprattutto quello vicino e particolarissimo del fiume Ciane, dove il papiro cresce rigoglioso. Persino troppo, visto che sarebbe importante curare un po’ meglio questo luogo particolare, con qualche sfalcio e riduzione della vegetazione, per evitare un eccessivo sfruttamento del fiume, eccessiva produzione di piante (e forse il recente incendio può essere una delle cause di questa trascuratezza).

Uscendo vedo che il foglio dei visitatori si è lentamente riempito, in questa domenica mattina sono entrati già una dozzina di persone. Un piccolo drappello di curiosi e di appassionati, sicuramente.
E saluto la reception sottolineando che forse l’attrazione più importante del museo non sono tanto i papiri, gli strumenti per lavorarlo, le barche africane, ma la persona stessa di Corrado Basile, che continua a rendere unico questo piccolo tesoro di resilienza culturale.

Altre risorse sul papiro? Ce ne sono, e anche di pregevole fattura, forse però più orientate allo studio dei testi e alla conservazione dei documenti, come il Museo Papirologico dell’Univ. del Salento, o il Papyrusmuseum della Biblioteca Nazionale di Vienna.

E le foto? Per coerenza non ho voluto postare foto degli interni visto che è richiesto proprio all’ingresso del museo con un bel cartello: No Foto e niente Video. E mi sembrava brutto fare il turista incurante delle norme. Mi sono così limitato a qualche scorcio all’esterno e sul giardino che accoglie i visitatori. Mi sembra già abbastanza suggestivo.

Davvero grande, questo amore

Davvero grande, questo amore

Tra un po’ dovrò riprenderlo, il suo famoso “Va dove ti porta il cuore”, perché dal tempo della prima lettura (in pieno secolo scorso), di vocali ne sono passate a scorribanda tra le consonanti …
Ma intanto resto gradevolmente sorpreso dai testi che puntualmente, ad ogni giro di boa importante, la Tamaro produce, senza strepito, con calma e decisione.

Così mi è capitato tra le mani questo suo ultimo romanzo (Una grande storia d’amore è del 2020, persino la pandemia vi fa capolino); dopo aver letto anche altri suoi testi, come quello dedicato al mondo della scuola, nel quale rivendica con fermezza alcuni suoi punti insindacabili (e opinabili, a parer mio) per avviare un recupero culturale serio, mi sembrava giunto il tempo di riprendere il filone narrativo. E non ne sono rimasto deluso.

La storia questa volta si basa su una sorta di inversione dei ruoli. E’ una storia d’amore tra due persone, ma l’autrice si cala fortemente nei panni dell’uomo, il “capitano”, in questo caso. E certe simbologie rivelano chiaramente alcune convinzioni. La trama si dipana lungo i nostri anni, partendo dai lontani (e forse non così mitici) anni 70-80. Per chi quegli anni li ha vissuti e li conosce sono tanti i rimandi, discreti e in filigrana, che ne definiscono i contorni, dai vestiti agli slogan, dal cibo alle abitudini, tutti elementi ben dosati e mai didascalici. La relazione che nasce tra i due protagonisti, la giovane Edith e Andrea, è marcata da numerose tappe, viaggi, traghetti, università, oriente… le prime delle quali sembrano fatte apposta per rendere difficile e poco scontata questa storia.

Il carattere dei personaggi sembra così antitetico e basato su presupposti quasi agli antipodi l’uno dell’altra che proprio solo il caso (nel finale del libro però farà capolino una speranza, anzi, una provvidenza che la dice lunga su chi tesse la trama dei giorni) sembra giustificarne la possibilità.

E’ una storia che inizialmente si basa sulle attese, sui tempi lunghi, sulle pause di riflessione e sui tentativi di imbastire la propria vita su altre basi, ma poi, lentamente, il percorso converge e i nostri due finiscono per riunirsi. Ma dopo questa sistole ecco prendere fiato la diastole delle persone, gli incidenti, le mancanze imprevedibili, le assenze. Sarà la morte di una nonna, colta dall’infarto su un bus giunto a fine corsa a minare l’equilibrio che la coppia aveva raggiunto, nonostante la presenza di una figlia proveniente da un altro percorso.

E dopo la vicenda di una nuova nascita, che purtroppo verrà segnata dalla tragedia di una fine prematura dopo pochi mesi, l’equilibrio raggiunto si sgretola. Da questo punto le piste divergono nuovamente, la coppia si rinsalda, ma la figlia si perde, letteralmente ed emotivamente. Il resto del libro si muove in vista di un possibile ritorno nel porto familiare, impresa difficile che infatti si compirà solo a frammenti.

Non è un giallo, ma i colpi di scena, le invenzioni, pacate ma illuminanti, sono di casa e mostrano la capacità dell’autrice nel prendere per mano il lettore e accompagnarlo nella riflessione su tanti temi che apparentemente sembrano un coacervo di elementi poco unitari. Ben dosato anche l’altro grande amore della Tamaro, le lettere; nel corpo del testo ne compaiono alcune, scritte dalla protagonista e necessarie nell’economia del testo per chiarire e completare il quadro. Dall’altalena alla cura delle api, dalla cultura cinese alle esperienze giovanili, dal ’68 maoista al recupero della fede attraverso itinerari anche semplicemente di sentiero. Il racconto si dipana ampiamente toccando temi e situazioni che fanno parte del nostro oggi, senza enfasi e con molta serenità. Ma anche fermezza: le idee che traspaiono sulla nostra modernità sono riprese spesso in modo apertamente critico, dalla inarrestabile avanzata dei cellulari al mondo della rete, dal dramma delle droghe sintetiche alla maternità desiderata e spesso difficile, in tutte le situazioni affiora poi la difficoltà delle relazioni tra genitori e figli, elemento quasi assiomatico nei testi della Tamaro.

Iniziato un po’ per curiosità e terminato quanto prima, per la scorrevolezza del testo, la semplicità letteraria (mai banale) e per l’aderenza a questa nostra vita, non sempre facile. E giunto all’ultima pagina veniva quasi voglia di sfogliare ancora il tablet per vedere cosa sarebbe successo dopo…perché il finale sembra solo un gradino verso un nuovo inizio.

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Sto per iniziare il mio terzo anno qui in Sicilia, da Siracusa a Catania ci sono meno di 60 km, eppure, a parte le necessarie toccate e fughe presso l’aeroporto, non ero mai riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo per visitare questa città. A dire il vero mi ero persino fatto consigliare da Mariagiovanna su un possibile itinerario di visita (e meno male che lo avevo scritto, perché pensavamo di andarci come comunità), ma tra una zona rossa e una a pois, le cose non sono andate esattamente nel migliore dei modi.

C’è voluta proprio l’occasione del fratello vacanziero per dedicare finalmente una giornata a Catania.

E ne valeva decisamente la pena, perché ho scoperto come la realtà siciliana non sia semplicemente identificabile con le belle cittadine barocche, un po’ trasandate e sonnacchiose come Modica, Ragusa e Siracusa….

In questi giorni Google Maps doveva avere le sue cose, perché ogni 3×2 esordiva con un “strada sconosciuta” oppure un enigmatico “fare inversione e tornare indietro”, anche se la strada era di quelle importanti e ben segnalata. Comunque, mettendone insieme un paio (chissà perché nella stessa macchina due versione di GMaps sembrano avere identità ed itinerari autonomi!) siamo finalmente arrivati alla zona in cui volevamo parcheggiare: la Via di Sangiuliano. Avevo rispolverato le note messe da parte, senza dilungarmi troppo sui siti ad hoc (tipo: le dieci cose da vedere assolutamente a Catania… per questi link ci pensava Lida).

La nostra prima meta era la piazza del teatro Bellini; doveva essere anche la tappa giusta per una granita e la brioche col tuppo, ma siamo capitati male. L’unico bar aperto della piazza ne era incresciosamente sprovvisto. Allora giusto il tempo di uno sguardo al teatro. Mi sono messo d’impegno e ho percorso tutto il suo perimetro, restando un po’ perplesso per l’esagerazione dei murales, il senso di abbandono e di quasi degrado da cui era circondato l’intero edificio. Difficile convivere con officine, autoriparazioni, saracinesche chiuse da anni, manifesti alternativi, scritte fluo dalla dubbia interpretazione, ma così succede. In compenso almeno la facciata, che collega magnificamente gli edifici attigui, ha la sua maestosa imponenza.

Poi ci siamo diretti verso il cuore della città: la piazza sulla quale si affacciano il Duomo, il Comune e la splendida fontana dell’Amenano. A dire il vero la prima tappa è stata presso il caffè Prestipino. Questa volta non siamo rimasti delusi, anzi, ammirando gli scaffali che grondavano di dolciumi, cassate, cannoli e altri veleni per diabetici, le nostre convinzioni sulla scelta del da scegliere traballavano visibilmente. Poco male, ci siamo rifocillati e poi abbiamo iniziato a contemplare il resto. La fontana dava veramente l’idea di un velo d’acqua impalpabile e fresco, il “lenzuolo”, come viene chiamato dai ccatanesi e quello spazio bianco e tremolante aiutava in qualche modo a sopportare il sole torrido. Poi il duomo, spettacolare e immenso, che richiama almeno per le dimensioni le basiliche di Roma (ormai io mi sono un po’ dimensionato sulle ridotte misure siracusane e il nostro duomo, al confronto, sembra una parrocchietta). E non per niente il primo uomo illustre sepolto in questa chiesa, lo incontri appena entri, è proprio il famoso compositore Bellini. Che dire poi dell’elefante in pietra nera che svetta nel centro della piazza? Dal 1239 è il simbolo della città e riporta indietro nel tempo, viene da pensare a Pirro o Annibale (l’origine della statua sembra infatti legata al periodo cartaginese), ma verrebbe anche da sottolineare il fatto che un tempo gli elefanti, quelli nani, erano di casa in Sicilia, per lo meno, nel …pleistocene. Anche il vicino palazzo del Comune (non per niente si chiama Palazzo degli Elefanti) riserva qualche sorpresa; nel suo androne d’ingresso, vi sono infatti delle splendide carrozze del 1700, una delle quali viene utilizzata ancor oggi, durante i festeggiamenti per S.Agata.

Ma dopo questa abbuffata storico-religiosa, ci siamo deliberatamente confusi nella Pescheria, cioè nel mercato popolare che si snoda nelle vie, nelle piazze e nei sottovarchi a sud della piazza. Un miscuglio di odori e colori, pesce e frutta, verdure e primizie, noci dell’Etna grandi come mele, fichi d’india già belli e pronti e profumo d’arancini (o dovrei dire arancine? hic est busillis); quando ci siamo seduti ad uno dei tanti street food self-service della zona, eravamo già belli che appagati in tutti i sensi (per lo meno, quelli che fanno parte del club dei 5).

Poi una scappata fino al castello Ursino, altro segnaposto di Federico II, tutto circondato come si ritrova oggi dalla lava. Riesce difficile immaginare che all’inizio era proprio a pochi passi dal mare. Meriterà una visita più calma, almeno per vedere il museo all’interno.

E per finire abbiamo dovuto fare una concessione a Lida, e inoltrarci nella “vasca” catanese di Via Etnea. Così l’itinerario era un po’ in versione step&go, con frequenti pause per contemplare le vetrine, ascoltare le dissertazioni dei commessi di Siculamente e cose del genere, superando di slancio le rovine dell’anfiteatro romano (si fatica davvero a coglierne l’imponenza, visto che doveva essere secondo solo al Colosseo di Roma); siamo giunti fino ai giardini di villa Bellini e lì ci siamo arenati un po’, prima di riprendere la strada verso l’aeroporto. Per Lida e Paolo il tour siciliano era ormai alla fine. Ma il bottino di bellezza, colori e sapori che avevano ormai raccolto, non aveva più bisogno di valigie per essere contenuto…

Ecco un album fotografico delle cose belle viste a Catania

Pedalare sotto questo sole…

Pedalare sotto questo sole…

Anni fa Baccini, con il suo tormentone estivo, ricordava che “Sotto questo sole è bello pedalare…” e tutto il resto. bene, tutto questo resto, insieme al bello, ovviamente, l’ho messo nel bagaglio delle esperienze compiute in questi giorni…

Sabato 21, insieme a mio fratello Paolo, ci siamo lanciati nell’impresa di farci qualche chilometro sull’antica via del sale, in groppa alle alpi liguri che fanno da cornice alla nostra terra. L’idea di una sgroppata in montagna riaffiora ogni estate. Lo scorso anno ero riuscito a fare una scappata ad Entracque, verso il rifugio Genova. Quest’anno le cose sono un po’ diverse e mi sarei accontentato di una decina di giorni casalinghi, insieme a mamma. Ma qualche eccezione si può ben fare. Così avevamo cominciato a valutare questa possibilità.

Per approfondire l’itinerario ci eravamo un po’ documentati sui vari siti locali, che ormai presentano con una buona documentazione gli itinerari possibili nell’entroterra: a cominciare dalle brochure disponibili in rete e persino ad un corposo documento con informazioni sui vari possibili itinerari, sempre rintracciato sul sito dell’Alta Via del Sale.

Allora, sabato mattina, all’alba (si dice sempre così ma erano ormai le 7) ci siamo diretti verso Monesi. In macchina fino a Imperia, poi verso Pieve di Teco e quindi, inerpicandoci su stradine non sempre perfette (le recenti alluvioni hanno lasciato il segno e Monesi è stata per mesi praticamente isolata dal resto del mondo!) eccoci arrivati al punto di noleggio della Mela verde. Naturalmente l’idea era quella di utilizzare delle e-bike e siccome era la prima volta che le usavamo in montagna, non sapevamo ancora bene a cosa andavamo incontro.

Senza tanti preamboli e seguendo le semplici indicazioni ricevute al noleggio da Marco, abbiamo subito iniziato a pedalare, apprezzando il valido contributo della pedalata assistita. Le bici erano della Fantic (io ricordavo solo che anni fa era una apprezzata marca di moto da trial) e il funzionamento molto intuitivo. Le batterie erano piene e la salita era tanta. La meta che volevamo raggiungere era il Rifugio don Barbera (un nome evocativo, ti fa pensare ad un gemellaggio con don Perignon o altri riferimenti da cantina…in montagna non stona di certo).

Il primo tratto di strada (i primi 5 km), fino al bivio per il Saccarello, era molto intenso, tutto in salita ma con un fondo stradale accettabile, alcuni tratti asfaltati, altri in cemento, pochi tratti di sterrato. Ma arrivati al bivio la musica cambia. Appena salutate le caprette all’alpeggio abbiamo preso il (duro) contatto con la strada bianca, la sua distesa di pietre e ciottoli, le buche e tutto quello che fa di una strada di montagna il “bello” della montagna. Ma intanto si pedala. Il fondoschiena comincia a sognare cuscini e soffici supporti, ma ad ogni scossone viene riportato crudamente alla dura realtà.

Tanti gli escursionisti, le moto, le altre bici, ma anche le macchine, le jeep… a volte la polvere si poteva tagliare a fette e l’aria di montagna sembrava un po’ deturpata. Per fortuna in poco tempo la situazione tornava limpida, il panorama riprendeva il sopravvento e l’occhio, soddisfatto della sua parte, si rappacificava.

Forse un’idea del percorso può rendere meglio l’idea del nostro tour. Siamo partiti da quota 1370 e siamo arrivati fino a 2240, con un totale di 50,4 km: per essere una prima volta, niente male davvero.

Dopo una pedalata di oltre 2 ore siamo così arrivati al tratto finale, discesa bruttina e piena di sassi, ma pur sempre discesa (e uno già ripensa al ritorno!); giunti al rifugio don Barbera, bello affollato di persone, abbiamo messo le bici sottocarica e ci siamo rifocillati un po’. E subito dopo, un po’ di sgranchimento di gambe nei dintorni, a gustare il panorama.

Quando decidiamo si ripartire scopro, dopo svariati minuti, che il tappo della ricarica non era stato chiuso bene e quindi la bici non voleva ripartire. Così, dopo averla spinta a mano per il primo tratto di salita, dal rifugio fino alla strada, rieccomi pronto per la partenza. Avevo un piccolo ritardo su Paolo, un paio di minuti, e quindi speravo di riprenderlo abbastanza presto, immaginando che avesse già iniziato il ritorno. Lo cerco lungo la strada e così com’ero, con gli occhiali da sole, mi sembra di vederlo ormai più avanti, con la sua maglia blu. Ma sono in tanti a pedalare in questo momento e non è certo facile superare il gruppone. Così penso di accelerare un po’ per riprenderlo. Il caso ha voluto invece che Paolo mi stesse aspettando proprio lì vicino e forse stava contemplando il panorama dall’altro versante. Così nell’illusione di raggiungerlo e lui nell’attesa di rivedermi… abbiamo ripreso la strada del ritorno separatamente. Ma poco danno, non c’erano molte possibili deviazioni… E siccome i 2 telefoni li avevo io nello zainetto, difficile sentirsi anche perché di campo telefonico, a quella quota, sopra i 2000, ce n’era proprio poco.

Il ritorno, o meglio, la discesa, tolti alcuni pezzi in salita, è stato un po’ massacrante. Salti, ciottoli, pietre, polvere (tanta polvere, con tutte le moto che salivano a quell’ora…) tutto documentato con pignola precisione dal mio fondoschiena che ha rilevato ogni buca. Ma vuoi mettere il panorama, gli scorci che si aprivano dopo una curva, il percorso in mezzo ai larici, il profumo di ginepro? Davvero un bel ritorno, nonostante tutto.

A forza di pedalare sono così ritornato al punto di partenza. Quando mi accorgo che Paolo non era ancora rientrato, nel dubbio sul cosa fare, riprendo la bici e risalgo un po’, giusto per attenderlo in un luogo più tranquillo e riposante. Infatti dopo non molto eccolo arrivare, con la sua maglietta blu 😉 e ricompattiamo il gruppo. Ormai il percorso è compiuto.

Sulla strada del ritorno una piccola deviazione verso Lucinasco, per ammirare il laghetto e la splendida chiesa di s.Stefano, del XV sec. Il panorama, come dice mio fratello Paolo, fa pensare più a una collina e un borgo toscano che al nostro entroterra ligure, se non fosse che da tutte le parti siamo circondati da olivi, olivi e olivi. E poi finalmente a casa, dove posso finalmente riconciliare le mie povere ossa su qualcosa di più morbido. Tanto lo so, il peggio arriverà domani 😉

E restano quindi le foto di questa giornata, comprese le aquile che volteggiavano fiere sopra di noi!

Album fotografico del bicitour
da Monesi al Rifugio Don Barbera

Il fantasma dell’Opera

Il fantasma dell’Opera

Ci vorrebbe proprio un fantasma qui a Siracusa, più che all’Opera direttamente al Teatro. Per intenderci, il Teatro Comunale.

Perché solitamente quando si abbina il teatro a Siracusa si pensa immediatamente a quello greco, ben più famoso. Ma non è l’unico.

Ho la fortuna di conoscere personalmente chi se ne sta occupando “dietro le quinte”, perché Anna V. è una delle responsabili delle mostre che in questi due mesi, luglio e agosto, si svolgeranno proprio nella sede del teatro e filtrando tra le tante notizie che sa presentare con garbo ai tanti turisti e curiosi che si affacciano nel foyer, si possono davvero comprendere le sfortunate vicende che questo edificio ha subito nella sua storia, nemmeno tanto antica (quando a Siracusa si parla di antico l’unità di misura sono i millenni, non certo i secoli o gli anni!).

Domenica scorsa ho approfittato di questa risorsa e insieme agli altri amici del coro di S.Martino (una attività che ormai condividiamo da quasi un anno) ci siamo trovati insieme per una visita ad hoc. Sia alla mostra di acquarelli, davvero splendidi che della struttura teatrale vera e propria (e seguiranno altre mostre, sia di quadri che di fotografie, da non perdere e non solo perché tutto gratis!)

La mia prima sorpresa è stata quella di incontrare anche Chiara, anche lei nello staff di chi gestisce momentaneamente questo luogo; con la scusa della mascherina non l’ho subito riconosciuta, ma ci ha pensato lei 🙂 visto che è una delle volontarie più assidue del nostro Centro CIAO, dove viene per aiutare i ragazzi delle medie per i compiti. Proprio vero che il mondo è piccolo!

Sentivo tutte queste informazioni comodamente seduto sulle splende poltrone, ammirando una serie di palchi davvero suggestivi, un soffitto in stile quasi liberty e mi chiedevo quanto tempo ancora servirà per una riapertura di questa splendida risorsa cittadina. Ovvio che poi sono andato a sbirciare anche su Wikipedia per allargare il panorama.

Abbiamo così scoperto velocemente la storia di questo teatro. Nato sull’onda delle tante requisizioni di terreni appartenenti alle congregazioni religiose nei primi anni del Regno d’Italia (che per fare cassa non ha esitato a confiscare di tutto, in particolare se i proprietari erano religiosi, conventi o abbazie…), si deve essere trascinato da subito una sorta di maledizione clericale perché non ha certo avuto vita facile. Durante i lavori di costruzione si sono subito incontrate difficoltà, parte della facciata tendeva a staccarsi e lesionarsi. Così è stato chiamato l’architetto Almeyda di Palermo per portare a conclusione l’opera, quasi compromessa. Erano gli anni dell’acciaio e del ferro (Eiffel aveva appena realizzato una mostruosa torre di 300 m. a Parigi!) e quella sembrava la soluzione ottimale, così tutta la zona dei palchi e la sala è stata costruita con colonne in ferro, ma rivestite in legno perché i cittadini trovavano questa soluzione troppo “fredda” e inadatta (o forse troppo audace). Ma i lavori andarono a rilento e l’inaugurazione avvenne solo alla fine del secolo, nel 1897.

I guai però continuarono dopo una cinquantina d’anni; venne demolito un palazzo adiacente e costruito un nuovo edificio per appartamenti, ma a causa dei garage realizzati nel sottosuolo la statica del teatro ne risultò talmente danneggiata che dovettero chiuderlo (la parte dietro la scena era praticamente rovinata e inutilizzabile, si salvava solo la parte riservata al pubblico, con i palchi, proprio quella realizzata ….in ferro!

In pratica dal 1960 il Teatro resta chiuso. Si parla di una ristrutturazione e riapertura, ma i fondi mancano, si giunge così al 2000, qualche lavoro parziale e una timida ripresa. Però la maledizione antica si riprende la rivincita e un fulmine, nel 2018, fa saltare tutto l’impianto elettrico. Ci sarebbe materiale per una novella verghiana, o un testo di Vittorini (già che c’era e forse lui il Teatro è riuscito a vederlo in funzione!).

il fantasma dell’Opera all’opera 😉

Sull’onda di queste emozioni e disponibilità mi è venuta così l’idea di farlo visitare anche ai nostri bambini del centro estivo. Detto fatto, Anna entusiasta di questa avventura, venerdì mattina ci siamo proprio recati a teatro, dopo aver prima fatto uno splendido percorso in barca grazie ad altri amici.

Siamo così giunti con la nostra banda di bambini e ragazzi in questa sede speciale. Per l’occasione Anna ha praticamente blindato il teatro, così noi eravamo gli unici occupanti. Dovevate vederli a scorazzare per la sala, illuminati dai lampadari (dono di D&G, per il modico valore di 20mila €, dopo lo spot realizzato nel 2013). Poi siamo entrati nel teatro vero e proprio. I bambini erano già stanchi e non servivano molte parole, così siamo poi addirittura andati a fare visita al Palco Regale, entrando anche in quelli adiacenti, come se fossimo stati invitati per una serata di gala.

Chissà cosa pensavano spostando i pesanti tendaggi che isolavano quegli ambienti, sia per la luce che per il rumore. Ad un certo punto è persino comparso il ….fantasma dell’opera: un lenzuolo bianco si aggirava sul palco. “Ma non è un fantasma, non lo vedi che ha le scarpe?” diceva qualche bambino, come se i fantasmi potessero avere le vesti ma non le scarpe (che buffe teorie che hanno certi bambini). Però adesso il fantasma se lo ricordano tutti, così come ricordano i deliziosi pasticcini che hanno assaggiato prima del saluto e del ringraziamento finale. E’stato davvero un modo speciale per concludere la seconda settimana del nostro campo estivo.

Cosa dire, alle volte incrociando amicizie e disponibilità si fanno cose davvero speciali. Come questa visita, che rende almeno un po’ del senso di una simile costruzione. Speriamo davverro che da agosto in poi le cose possano iniziare a cambiare (perché, mi diceva sempre Anna, dovrebbero firmare il contratto per la nuova gestione dello stabile).

Staremo a vedere, anzi, possibilmente, ad assistere.

E siccome di foto ne sono venute fuori abbastanza, eccole tutte qui, in questo album sul Teatro di Siracusa