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Quando si volta pagina

Quando si volta pagina

Un sguardo attento…

Ho atteso diversi giorni per queste righe; è stata una settimana davvero unica e certe emozioni, certe parole, vanno riposte altrove. Il riserbo è più eloquente, ma quando si volta pagina per fatti e avvenimenti speciali può anche essere utile riflettere e non lasciare semplicemente che le cose passino o trascorrano. I segni che la vita ci lascia sulla vita possono aiutare nei percorsi successivi.

Ho perso mamma in questi giorni, dopo un periodo lungo ma quasi prevedibile, fatto di attese e soste, piccole riprese e poi il graduale affievolirsi delle forze e del vigore.

Già da tempo la sua salute era malferma e gli stessi dottori si erano meravigliati, anni fa, del fatto che dopo alcuni interventi per il tumore che l’aveva aggredita, avesse quasi ripreso un ritmo di vita normale, senza nemmeno cure o medicine. Ma la relazione con una madre non si misura dalla precisione delle diagnosi o dal numero delle pillole da assumere quotidianamente.

Vittoria con i 4 figli, finalmente grandi…

Ho vissuto così giorni davvero speciali, insieme ai mie 3 fratelli e a tanti parenti ed amici, una famiglia allargata che fa sentire il fluire della vita come un torrente più ampio del proprio rigagnolo, un sentirsi quasi portati con delicatezza e semplicità, nell’accettare un distacco già annunciato da tempo e prevedibile, ma sempre considerato come lontano, o almeno non imminente.
Ora è il momento del commiato.

Una carezza non si nega a nessuno…

Vittoria avrebbe compiuto 90 anni tra pochi giorni, avevo persino calcolato tutto per essere di nuovo presente accanto a lei e alla nostra famiglia, avevo già un biglietto per i primi di dicembre, e le avevo strappato una quasi promessa all’ultimo incontro di inizio novembre. Ma poi lei ha preferito festeggiare un’altra ricorrenza; lì per lì non ci avevamo quasi fatto caso, ma il giorno del decesso, il 15 novembre, era anche il 65° anniversario del suo matrimonio.

E nella nostra famiglia noi fatichiamo a tenere separati Vittoria dal marito Graziano, sicuramente un anniversario che ci tocca molto da vicino, più di un compleanno. Li abbiamo sempre visti insieme, un discorso di fedeltà concreto, gesti e poche parole. E un legame non sempre tanto facile, com’è la vita di ogni giorno, ma rinnovato con affetto dopo ogni piccolo rimbrotto… mamma ad esempio aveva faticato molto quando ci siamo trasferiti qui, nella San Lorenzo dei primi anni 70; una casa appena abbozzata, arpionata ad una strada senza asfalto e senza luci, zanzare a plotoni e quasi nessuna persona amica vicina. Oggi è ben diverso e la casa reca ormai la sua impronta, le sue piante, le sue scelte, i suoi gatti, ma all’inizio, quanta fatica!

Non si tratta di fare un bilancio, ma semplicemente ricordare con affetto il solco nel quale ci si trova a vivere. Perché le cose più evidenti di una madre te le ritrovi poi nei figli.

Tenere in ordine i nipoti … è dura

Come l’accoglienza e l’impegno laborioso e senza chiasso, che nella vita di famiglia riempie le giornate e costruisce il futuro. Abbiamo condiviso per anni la fortuna di essere una famiglia serena, allegra, unita, con tanti impegni comuni e un medesimo orizzonte a fare da sfondo; la nostra casa qui a Sanremo era spesso il teatro di rimpatriate allegre, di riunioni chiassose e informali con i figli e i nipoti, con gli amici e i vicini della nostra San Lorenzo (in una foto di Paolo ho contato 19 persone a festeggiare in sala, altro che distanziamento, ma era il secolo scorso!).

Papà ai fornelli, mamma a infornare le pizze e tentare di ridurre il numero di pentole che papà utilizzava (aver lavorato tutta la vita come chef ti porta volentieri a schierare tutta la batteria di tegami di cui disponi), i figli a preparare rostelle o sistemare tavolate, i nipoti a rincorrere il cane o scorrazzare in campagna. Mangiare insieme è già un’arte che aiuta a vivere ed accettare le tante differenze.
A casa nostra, soprattutto d’estate, era spesso così.

Complice anche le tante condivisioni con la vita marista: i tanti fratelli conosciuto e passati da queste parti, i campi ad Entracque per portare avanti la cucina (e Zeno mi ricorda che mamma è stata anche la madrina della ristrutturazione della “nuova” casa), le visite alle comunità mariste, la presenza dello zio Pippo, gli impegni di Massimo, Giorgio ma anche Roberto, dei tanti maristi conosciuti ed accolti… questo allargarsi della famiglia offriva un orizzonte ancora più ampio a tutti quanti. Più vita.

La “famiglia allargata” per il 60° di matrimonio, era il novembre 2016

E mamma senza tanti discorsi viveva tutto questo, lo conosceva bene, lo condivideva, se ne faceva carico e non di rado ci aiutava a portarlo avanti. Avere due figli a tempo pieno in questa dimensione marista e gli altri due impegnati con le rispettive famiglie, era argomento ricorrente. Così alle preoccupazioni per i nipoti si alternavano quelle per la scuola di Giugliano, per le attività di Genova per scivolare fino a Siracusa, toccando i tanti problemi della scuola locale, il futuro dei nipoti, la scelta di un impegno educativo di portata più ampia.

Il resto dei ricordi è tesoro di famiglia.

Ciao mamma Vittoria

Adesso inizia il tempo del recupero, della riflessione e della memoria. Uno spazio personale, logicamente; ma tanti piccoli segni, di noi figli, rivelano i tratti migliori di chi ci ha accompagnato per prima, di chi ci ha cresciuti ed aiutato a muovere i primi passi. Una preziosa eredità da custodire e coltivare insieme…

E questo è il ricordino che abbiamo preparato per gli amici…

Proprio d’autunno

Proprio d’autunno

Passare alcuni giorni a casa, a Sanremo, bello arroccato sulla mia Sanlorenzo, a metà strada tra montagna e mare, non mi capita spesso. Ma questa pausa autunnale, era ben motivata per motivi familiari.

Sono stati giorni molto morbidi e apparentemente tranquilli, senza troppe distrazioni o incombenze varie. Un’occasione per osservare anche con calma il tempo che cambia, i giorni che lasciano sul paesaggio una patina stagionale ben evidente.

Peccato per le piante di cachi, che non erano ancora al momento più suggestivo dell’autunno, ma di “foliage” interessante ce n’era abbastanza, tutto intorno. Ci ha persino pensato l’amico fr. Zeno a mandarmi due foto del campo di Entracque, con le foglie ormai pronte al distacco, giusto l’occasione per aggiungere due righe (con foto, ovviamente) anche a questo proposito.

Ho ritrovato le piante avviate in agosto, anche se per forza di cose un po’ abbandonate; pulito un po’ il nostro orto, rimesso in piedi qualche rimasuglio di pomodori, mondato le insalate. Viene sempre la tentazione di seminare e coltivare solo erba, perché quella spunta ovunque…

E ho cercato anche di sistemare qualche altra pianta aromatica nei vari punti strategici; ne metterei quasi in ogni angolo, ma non di solo naso vive il panorama! E per quanto riguarda il naso, quello si è allenato abbastanza in cucina, con l’amalgama di sapori e gusti che stuzzicano sia il palato che la memoria.

Nell’ultimo giorno, dopo la pioggia di lunedì 1 novembre (a onor del vero qui da noi sono scesi poco più di 35 mm. di acqua, in modo davvero discreto e tranquillo, altro che le inondazioni siciliane di questi giorni, che ho scampato totalmente) ho provato a fare due passi verso la strada militare, il confine evidente tra l’abitato e il selvaggio. Una strada che si dipana tra serre e spianate ancora coltivate, tra gli ortaggi e le piante da ornamento; rapidamente la macchia mediterranea, o qualcosa del genere, prende il sopravvento e si raggiunge facilmente la zona dove l’unico intervento umano è quello della vigliacca inciviltà di chi scarica immondizie e rumenta varia nelle scarpate. Purtroppo anche qui le ferite sono evidenti e i vari cadaveri di frigoriferi e tv nelle ripe sono ormai un elemento storico, difficilmente sanabile.

Ma attraversata la strada e introdottosi un poco nel bosco, per fortuna tutto cambia e la natura riprende il sopravvento. Bastano pochi minuti per riconciliarsi con l’ambiente, sentirlo come doveroso e necessario, quasi onorarlo. E gli occhi prendono il sopravvento sulle parole.

Ecco qualche altra immagine di questi luoghi

Tante cose in poche righe

Tante cose in poche righe

Il pio desiderio di riuscire a mettere giù qualche riga con una tempistica più decente, anche solo come “allenamento” non credo sia una mia nota distintiva. A volte passano davvero molti giorni e molte cose prima di sedimentare sul web. Non che sia necessario (un blog quasi mai lo è), ma diventa un utile appuntamento con la realtà e quel pizzico di riflessione che aiuta a viverla meglio.

In questo inizio di autunno, qui a Siracusa, il tempo si è ormai deciso a rimettersi al passo col calendario. Io continuo a dire che lo scorso anno si riusciva ancora a fare qualche passaggio in acqua, con il mare così vicino, ma ormai sono diverse settimane che il tempo si è ormai piazzato sul medio-brutto. Pioggia, e tanta; nella sola giornata di venerdì scorso (14 ottobre) sono piovuti più di 40 mm, praticamente il 10% di un intero anno. Se fosse arrivata a luglio, nel periodo critico degli incendi, sarebbe stato davvero meglio… Ma l’acqua serve, anche quando crea qualche disagio (e qui a Siracusa è successo ben poca cosa, un simpaticone ha preso il canotto e si è messo a pagaiare per la strada in versione torrente, per manifestare i vari disservizi, ma è più una nota di colore che un vero problema). Anche la temperatura si è ormai allontanata dalle astronomiche quote estive. Finalmente nel nostro appartamento si inizia a sentire un po’ di fresco (e qualcuno ha già raddoppiato le coperte!).

E sarà il mare, sarà l’acqua, saranno le passioni di un tempo che rifanno capolino, ho da poco allestito anche un piccolo acquario, che fa la sua (discreta) figura all’ingresso del Ciao. Una piccola vasca, 60 litri, di seconda mano (l’acqua invece è originale, anzi, va cambiata spesso!) In realtà volevo metterci dentro dei pirahna e poi incutere un qualche terrore ancestrale nei bambini che finiscono i compiti troppo in fretta: “Adesso diamo da mangiare ai pesciolini…”; ma per fortuna lo scopo è un altro e spesso si rivela un sistema interessante per fargli occupare un po’ di tempo: “Trova il 4 pesce” (sigh, ne sono rimasti solo i 3 della foto, quindi sarà dura!), oppure “Controlla se dalla conchiglia esce qualcosa…”. Così adesso, la sera, quando il timer spegne la luce alle 19:30, diventa più facile ricordarsi che bisogna trovare tempo anche per le altre cose. Non ricordo quale psicologo consigliasse agli ansiosi, alle persone frettolose e agli irrequieti, di prendersi qualche minuto, mettersi davanti ad un acquario e lasciare andare gli occhi dietro ai volteggi dei pesci. Puro relax.

Domenica scorsa ho partecipato anch’io all’assemblea dei fratelli maristi d’Italia, presso la nostra casa generalizia di Roma; ne ho già scritto qualcosa qui, non serve ripetersi. Bella esperienza, davvero.

E per concludere, la notte tra il venerdì e il sabato, per un servizio con la CRI, ho avuto l’opportunità di fare un servizio insolito, dormire presso l’Ostello per lavoratori di Cassibile, che è passato da poco sotto la gestione della Croce Rossa; magari di questo se ne riparlerà. In compenso, già che al mattino presto del sabato ero da quelle parti, ho provato a vedere se mi ricordavo la strada per andare di nuovo ai laghetti della Riserva di Cavagrande del Cassibile.

Lunga strada in macchina, a dire il vero, quasi 10 km lungo un percorso che a volte ti fa pensare di essere finito in qualche landa desolata e deserta. L’importante è non lasciare mai la strada asfaltata (all’inizio ho sbagliato e un piccolo branco di cagnoloni, forse nemmeno randagi, mi ha accompagnato per un po’, fino al rientro sulla retta via!). Insomma, dopo una decina di km si giunge al segnale che indica il sentiero Mastra Ronna. Lascio la macchina e mi avvio a piedi, non fidandomi troppo del cartello “Parcheggio” e soprattutto della strada, così aspra e irregolare. Buona per un trattore, ma devastante per le macchine, anche se poi le incontrerò… Passo vicino alla casa del primo allevatore e mi domando come possa essere la vita da queste parti, quasi in esilio. E finalmente arrivo alla postazione Stallaini, punto di partenza del sentiero. La volta precedente avevamo preso una strada diversa, ma questa mi sembra decisamente più tracciabile e sostenibile.

Così inizio la discesa, ricordavo che non ci voleva molto. Dopo una sosta mozzafiato al belvedere per la Grotta del Brigante (con la sua stranissima ed originale scaletta scavata nella roccia) riprendo il sentiero e in meno di mezz’ora si arriva ai laghetti. Non mi azzardo a fare un tuffo, il sole ancora non scalda questa zona, ma almeno i piedi al fresco riesco a metterli. E poi rapidamente si riprende la strada del ritorno. Poco più di mezz’ora e il dislivello (saranno 200 mt) viene completato e riprendo la via di casa. Ci voleva una passeggiata tra i monti, dopo tutto questo mare. Quando ripasso dalla base ci sono gli operatori regionali, mi chiedono se arrivo dalla parte opposta, quando gli rivelo che il mio tragitto era solo di andata e ritorno mi invitano a firmare il libro degli ospiti. Nulla di strano che negli ultimi 3 giorni nessuno sia passato da queste parti, tra tempeste e brutto tempo, ma oggi il sole è davvero splendido, almeno per la mattinata.

Peccato che il cellulare mi abbia abbandonato prima di poter riprendere anche qualche immagine dei laghetti e della totale tranquillità di questi luoghi.

Ecco qualche foto di questa rapida incursione nella Riserva sentiero Mastra Ronna.

E proprio il mare nel pomeriggio annuncia una sorta di spiraglio, complice il sole che recupera un po’ sulle nubi. Così prendo la bici per andare a vedere se questa volta l’acqua della zona della tonnara di s.Panagia sia più accogliente. Ma… niente da fare, tempo di arrivare e le nuvole riprendono il sopravvento.

Insomma, tra monti e mare, una giornata quasi tutta natura.

Pedalare sotto questo sole…

Pedalare sotto questo sole…

Anni fa Baccini, con il suo tormentone estivo, ricordava che “Sotto questo sole è bello pedalare…” e tutto il resto. bene, tutto questo resto, insieme al bello, ovviamente, l’ho messo nel bagaglio delle esperienze compiute in questi giorni…

Sabato 21, insieme a mio fratello Paolo, ci siamo lanciati nell’impresa di farci qualche chilometro sull’antica via del sale, in groppa alle alpi liguri che fanno da cornice alla nostra terra. L’idea di una sgroppata in montagna riaffiora ogni estate. Lo scorso anno ero riuscito a fare una scappata ad Entracque, verso il rifugio Genova. Quest’anno le cose sono un po’ diverse e mi sarei accontentato di una decina di giorni casalinghi, insieme a mamma. Ma qualche eccezione si può ben fare. Così avevamo cominciato a valutare questa possibilità.

Per approfondire l’itinerario ci eravamo un po’ documentati sui vari siti locali, che ormai presentano con una buona documentazione gli itinerari possibili nell’entroterra: a cominciare dalle brochure disponibili in rete e persino ad un corposo documento con informazioni sui vari possibili itinerari, sempre rintracciato sul sito dell’Alta Via del Sale.

Allora, sabato mattina, all’alba (si dice sempre così ma erano ormai le 7) ci siamo diretti verso Monesi. In macchina fino a Imperia, poi verso Pieve di Teco e quindi, inerpicandoci su stradine non sempre perfette (le recenti alluvioni hanno lasciato il segno e Monesi è stata per mesi praticamente isolata dal resto del mondo!) eccoci arrivati al punto di noleggio della Mela verde. Naturalmente l’idea era quella di utilizzare delle e-bike e siccome era la prima volta che le usavamo in montagna, non sapevamo ancora bene a cosa andavamo incontro.

Senza tanti preamboli e seguendo le semplici indicazioni ricevute al noleggio da Marco, abbiamo subito iniziato a pedalare, apprezzando il valido contributo della pedalata assistita. Le bici erano della Fantic (io ricordavo solo che anni fa era una apprezzata marca di moto da trial) e il funzionamento molto intuitivo. Le batterie erano piene e la salita era tanta. La meta che volevamo raggiungere era il Rifugio don Barbera (un nome evocativo, ti fa pensare ad un gemellaggio con don Perignon o altri riferimenti da cantina…in montagna non stona di certo).

Il primo tratto di strada (i primi 5 km), fino al bivio per il Saccarello, era molto intenso, tutto in salita ma con un fondo stradale accettabile, alcuni tratti asfaltati, altri in cemento, pochi tratti di sterrato. Ma arrivati al bivio la musica cambia. Appena salutate le caprette all’alpeggio abbiamo preso il (duro) contatto con la strada bianca, la sua distesa di pietre e ciottoli, le buche e tutto quello che fa di una strada di montagna il “bello” della montagna. Ma intanto si pedala. Il fondoschiena comincia a sognare cuscini e soffici supporti, ma ad ogni scossone viene riportato crudamente alla dura realtà.

Tanti gli escursionisti, le moto, le altre bici, ma anche le macchine, le jeep… a volte la polvere si poteva tagliare a fette e l’aria di montagna sembrava un po’ deturpata. Per fortuna in poco tempo la situazione tornava limpida, il panorama riprendeva il sopravvento e l’occhio, soddisfatto della sua parte, si rappacificava.

Forse un’idea del percorso può rendere meglio l’idea del nostro tour. Siamo partiti da quota 1370 e siamo arrivati fino a 2240, con un totale di 50,4 km: per essere una prima volta, niente male davvero.

Dopo una pedalata di oltre 2 ore siamo così arrivati al tratto finale, discesa bruttina e piena di sassi, ma pur sempre discesa (e uno già ripensa al ritorno!); giunti al rifugio don Barbera, bello affollato di persone, abbiamo messo le bici sottocarica e ci siamo rifocillati un po’. E subito dopo, un po’ di sgranchimento di gambe nei dintorni, a gustare il panorama.

Quando decidiamo si ripartire scopro, dopo svariati minuti, che il tappo della ricarica non era stato chiuso bene e quindi la bici non voleva ripartire. Così, dopo averla spinta a mano per il primo tratto di salita, dal rifugio fino alla strada, rieccomi pronto per la partenza. Avevo un piccolo ritardo su Paolo, un paio di minuti, e quindi speravo di riprenderlo abbastanza presto, immaginando che avesse già iniziato il ritorno. Lo cerco lungo la strada e così com’ero, con gli occhiali da sole, mi sembra di vederlo ormai più avanti, con la sua maglia blu. Ma sono in tanti a pedalare in questo momento e non è certo facile superare il gruppone. Così penso di accelerare un po’ per riprenderlo. Il caso ha voluto invece che Paolo mi stesse aspettando proprio lì vicino e forse stava contemplando il panorama dall’altro versante. Così nell’illusione di raggiungerlo e lui nell’attesa di rivedermi… abbiamo ripreso la strada del ritorno separatamente. Ma poco danno, non c’erano molte possibili deviazioni… E siccome i 2 telefoni li avevo io nello zainetto, difficile sentirsi anche perché di campo telefonico, a quella quota, sopra i 2000, ce n’era proprio poco.

Il ritorno, o meglio, la discesa, tolti alcuni pezzi in salita, è stato un po’ massacrante. Salti, ciottoli, pietre, polvere (tanta polvere, con tutte le moto che salivano a quell’ora…) tutto documentato con pignola precisione dal mio fondoschiena che ha rilevato ogni buca. Ma vuoi mettere il panorama, gli scorci che si aprivano dopo una curva, il percorso in mezzo ai larici, il profumo di ginepro? Davvero un bel ritorno, nonostante tutto.

A forza di pedalare sono così ritornato al punto di partenza. Quando mi accorgo che Paolo non era ancora rientrato, nel dubbio sul cosa fare, riprendo la bici e risalgo un po’, giusto per attenderlo in un luogo più tranquillo e riposante. Infatti dopo non molto eccolo arrivare, con la sua maglietta blu 😉 e ricompattiamo il gruppo. Ormai il percorso è compiuto.

Sulla strada del ritorno una piccola deviazione verso Lucinasco, per ammirare il laghetto e la splendida chiesa di s.Stefano, del XV sec. Il panorama, come dice mio fratello Paolo, fa pensare più a una collina e un borgo toscano che al nostro entroterra ligure, se non fosse che da tutte le parti siamo circondati da olivi, olivi e olivi. E poi finalmente a casa, dove posso finalmente riconciliare le mie povere ossa su qualcosa di più morbido. Tanto lo so, il peggio arriverà domani 😉

E restano quindi le foto di questa giornata, comprese le aquile che volteggiavano fiere sopra di noi!

Album fotografico del bicitour
da Monesi al Rifugio Don Barbera

Povere diapositive…

Povere diapositive…

Correvano (e anche velocemente) gli anni 80. L’hobby della fotografia occupava uno spazio discreto…. Dopo le mie prime sperimentazioni di sviluppo e stampa in B&N il passo successivo si è indirizzato verso le diapositive. Facevo scuola e spesso i fotomontaggi (all’epoca era quasi il massimo della multimedialità) mi sembravano una soluzione percorribile e stuzzicante.

E naturalmente l’idea era quella di lavorare per produrre qualcosa di duraturo, da riutilizzare lungo gli anni. Le diapositive mi sembravano lo strumento adatto. Tutta plastica, coloranti a prova del tempo (almeno sul breve periodo) e così ho iniziato a prediligere questo metodo.

Durante l’estate, poi, quando c’erano i campi estivi ad Entracque o Lavarone, era uno degli appuntamenti fissi. Facevo foto al gruppo, durante le escursioni, nei vari momenti delle attività e poi, calcolando con pignoleria i tempi, si mandava a sviluppare il rullino nel fotolaboratorio più vicino (Cuneo o Trento) e spesso mi riusciva di proiettare le foto prima della partenza dei ragazzi.

Immaginatevi quindi la scena: nel cortile ormai buio, con un mega lenzuolo steso alla belle e meglio come schermo, tra due alberi, dopo aver sistemato cavi, cavalletto e proiettore, tutti i ragazzi in semicerchio per rivivere i momenti clou della settimana. Persino le diapositive sballate e fuori fuoco potevano servire; col pennarello ci scrivevi sopra il titolo della serata, la data del campo, qualche commento… In effetti era già possibile l’editing manuale (pennarelli indelebili con punta superfine, ovviamente). Durante lo show si sprecavano le esclamazioni, gli “Ohhh…!” di partecipazione e le pernacchie per qualche eventuale fuori scena… o foto simpatica.

Poi gli anni passano, le diapositive restano chiuse nelle loro scatole, o nei pratici (?) fogli in plastica che ne consentono una visione più rapida. Dopo gli anni 90 iniziano a farsi largo le macchine digitali. Ricordo ancora una delle prime che ho utilizzato, una Fuji con sensore da ben 3 Megapixel. E si apriva il dibattito se il digitale avrebbe mai soppiantato le foto e le diapositive analogiche, con una risoluzione decisamente superiore e per quei tempi irraggiungibile. Ma il digitale ha iniziato a galoppare e i risultati li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Cellulare da 54 Mpx, o con tripla fotocamera, ecc. ecc. Il sorpasso è ormai consegnato alla pratica quotidiana.

E dove sono finite le vecchie diapositive? Da un trasloco all’altro ho cominciato a sistemare le vecchie diapositive in qualche scatola di scarpe più robusta, in raccoglitori più pratici. Per poi lasciarli in qualche scaffale. Così le ho persino dimenticate in un sottoscala piuttosto umido (a Giugliano) e quando mi hanno detto che le avevano ritrovate ho sperato di poterne fare ancora qualcosa.

Gli scanner per diapositive sono ormai strumenti abbordabili, anche se per ottenere una qualche resa professionale è necessario rivolgersi a prodotti di classe superiore. Naturalmente tutto dipende dalla qualità delle diapositive. E quando mi sono ritrovato tra le mani le tante scatolette, nutrivo un bel po’ di aspettative: finalmente potrò recuperare le foto dei campi estivi di 30-40 anni fa! E invece… Dopo averle aperte e passate in controluce, la delusione cocente. Molte diapositive erano solo più un ammasso di pigmenti colorati, macchie colorate o suggestioni buone per Andy Warhol… Sicuramente l’umidità e il calore hanno compiuto il disastro. Solo qualche scatoletta chiusa meglio ha fornito qualche resto leggibile.

Ma ogni scarrafone è bello a mamma soia e quindi, ne ho recuperate un po’, anche se la qualità è decisamente bassa; in molte si fatica a riconoscere le persone, in altre la fantasia deve giocare un ruolo davvero ingombante.

Ho recuperato alcuni vecchi campi scout, qualche immagine della mia prima classe come insegnante di scuola elementare, qualche incontro marista a Las Avellanas (1986) e altri scampoli memorabili.

Ma in molti casi la qualità è così bassa che serve molto coraggio per conservare le immagini.
Giusto per un confronto, ecco alcune diapositive del 1981, eravamo a Trevi nel Lazio, per il nostro campo con i lupetti del SLM (io ero il Baloo ufficiale del gruppo), come Akela c’era Stefano Strano, ma tranne qualche immagine i volti sono proprio illeggibili. Persino quello di Laura Lega, che magari meritava qualcosa di più (in quegli anni era stata eletta Miss Cinema del Lazio, attualmente è il capo dipartimento dei Vigili del Fuoco!); ho rintracciato persino un antesignano dei selfie, un mio autoscatto nella sala dei bottoni del campo.

Speriamo che giunti a questo stato di “conservazione”, avendo passato il tutto in digitale, non succedano altri cataclismi, ma basterebbe riflettere sui recenti attacchi informatici, con ransomware selvaggio che cripta tutti i dati del tuo hard-disk, per capire che i disastri sono sempre più frequenti dei salti evolutivi!

E finito il lavoro, senza troppi rimpianti, tutto il materiale è stato eliminato definitivamente. Così al prossimo trasloco ci saranno meno anticaglie inutili da dover sistemare. Ma sono piccole lezioni utili, per ridimensionare le cose, la loro durata e persino la loro utilità.